Ero seduto a bere qualcosa davanti a uno dei tanti caffè discretamente chiassosi che nei pomeriggi d’estate animano il suggestivo quartiere di Trastevere, a Roma, dove mi piace restare a lungo ogni volta che ritorno in questa città. Sul tavolo avevo un libro di poesie di Nazım Hikmet che avevo da poco comprato nella piccola libreria proprio sulla Piazza antistante la chiesa di Santa Maria. Avevo appena aperto il libro quando, dal tavolo vicino al mio, la persona lì seduta da prima che io arrivassi, disse senza guardarmi:
“Il più bello dei mari, è quello che non navigammo…”
Poi si girò e mi sorrise. Era il primo verso di una poesia del poeta turco il cui libro mi accingevo a leggere e che il mio vicino probabilmente aveva visto sul tavolo. Gli sorrisi anch’io e gli chiesi se aveva letto quel poeta. Fece un piccolo cenno d’assenso con la testa e aggiunse in tono quasi meditativo:
“I poeti sono i rivoluzionari più temibili perché quando si scoprono gli effetti del loro agire, è ormai troppo tardi”.
Poi rise, di un riso sincero, come quello dei bambini e si presentò. Era una di quelle persone a cui è difficile dare un’età. Poteva avere 20 anni così come oltre 30. Mi disse di chiamarsi Gregor, il suo italiano era perfetto, ma era nato in Armenia da padre russo e madre ebrea greca. Dall’età di 17 anni viveva in giro per l’Europa sostando – stando a quanto diceva- in ogni paese il tempo necessario ad impararne bene la lingua, facendo i più disparati mestieri, per poi ripartire. A vederlo sembrava uscito da uno di quei romanzi tedeschi del primo Novecento. Il suo abbigliamento semplice, ma non trasandato, stonava leggermente con la sua gestualità misurata e l’aura, oserei dire quasi “magnetica”, che lo circondava. Portava a tracolla una borsa di stoffa azzurra con alcuni libri e accanto alla sedia aveva uno zaino non molto grande e un astuccio da violino, ma non seppi mai se al suo interno vi fosse veramente quello strumento.Gregor mi disse di essere in Italia da alcuni anni e che di lì a qualche ora sarebbe partito per il Portogallo dove avrebbe vissuto per un certo periodo. Parlammo a lungo di molte cose, aveva una cultura eclettica e solida e dai particolari che raccontava sembrava conoscesse l’Italia alla perfezione. Trascorremmo seduti a qual tavolo un lasso di tempo che ora non saprei quantificare, mentre intorno a noi le luci della sera illuminavano la via ora piena di gente che passeggiava e che godeva della bellezza di Trastevere. Gregor mi disse che doveva andare, ci stringemmo la mano, si caricò le spalle dei suoi averi e ci salutammo augurandoci il meglio. Poi, prima di scomparire tra folla dei passanti, tolse dalla borsa di tela azzurra alcuni fogli e me li diede.
Pubblico alcuni dei suoi versi augurandogli, ovunque egli si trovi,
Buon Cammino!
ESTATE A ROMA
Da Trastevere festoso alle borgate,
la notte allevia con tiepida frescura
la città rovente
e avvolge le vestigia antiche
dei templi sconsacrati,
le chiese impolverate,
le diroccate mura.
Dall’Aventino odoroso
Roma s’affaccia e si seduce,
lasciva ed elegante nella luce
che svela le facciate di Navona,
il Lungotevere e le vie vecchie
di Testaccio.
Roma profana e sacra
che cinge nello stesso abbraccio
mondi tra loro sconosciuti:
signora e serva di cardinali e duci,
Roma vende sogni già
confezionati.
Quel che non dicesti non dirai,
eterna Roma,
immagine coerente del tuo tempo,
guardiana e prigioniera
di un’estasi sublime,
prodiga di bellezza
e di tormento.
NAPOLI
C’è un silenzio saturo di vita
ed eleganza trascurata
nei vichi oscuri dei Quartieri
e sui palazzi,
negli anfratti solitari ed evitati,
nelle strade senza uscita.
Inconciliabile caotica armonia
(paradossale indistinzione)
mi circonda, e un’emozione
improvvisa mi confonde
e fugge via.
La seduzione senza nome del momento
rigenera illusioni vecchie e nuove,
troppe volte consumate a Mergellina,
a Posillipo e altrove.
Interiorizzo sensazioni a Chiaie,
Capodimonte, o percorrendo
la ferita aperta
che da Forcella s’apre
e mai rimarginata si spande.
La notte incerta già s’arrende
a Spaccanapoli e sale l’odore
dei mercati rionali,
mentre io ricerco non so cosa
a Napoli,
tra glorie del passato
e decadenze attuali.
CANTO DELLA NOTTE
Ci giunge distante
in voce senza corpo
il respiro della città notturna.
Nasce negli alvei polmonari cittadini,
dagli schiamazzi delle piazze illuminate,
dalle strade strepitanti del centro
immerse in cacofonie di turisti festosi.
Attraversa le stazioni vuote,
gli squadrati quartieri suburbani,
le moderne periferie borghesi
addormentate.
Risale trachee sopraelevate di cemento,
vene aggrovigliate d’asfalto
dove il metallico sangue urbano
fluisce in corsa
verso orizzonti opachi.
Continua lento e inarrestabile
fino ai varchi senza porte
della metropoli informe,
dove l’odore dei binari
si mescola all’acacia
e il mormorio confuso
si stabilizza in brusio lontano.
E noi, davanti a una finestra aperta,
ascoltiamo la notte
nella brezza leggera
di un’imminente estate.
PALERMO
C’è una storia, una storia millenaria,
o forse solo il suo ricordo muto
nei gesti quotidiani e nei sorrisi,
negli occhi fieri e attenti,
negli accenti variegati e melodiosi.
Il sole di Palermo nasce e muore
nel suo cammino lento
dalle cupole normanne alle pendici
delle brulle alture,
nelle calure dei pomeriggi estivi.
Mercanti dai volti arabi e fenici
gridano frasi antiche con parole nuove,
a Ballarò,
dai banchi dei mercati mattutini.
Decifro simboli da Santa Caterina
fino allo Spasimo e le sue costellazioni
che fondono la scienza divina
e quella umana.
Palermo nobile e sovrana
rimane assorta nella sua marina
ai venti di scirocco e maestrale.
Palermo, fiore d’Oriente ed orinale,
delle tue mille notti
io ne ho vissuta una,
ma dir non so
se fu illusione,
o se reale.
PAESAGGIO NOTTURNO
Percorro le strade deserte
dei sobborghi estremi,
periferie industriali dismesse
dove branchi di cani randagi si aggirano
tra carcasse spolpate di rottami.
Qui, sotto i cavalcavia ossidati,
si consumano amori mercenari
dietro cumuli di terra smossa,
nell’odore acre di plastica bruciata.
Cammino sotto sparuti lampioni
accanto a capannoni vuoti,
sul confine tra l’asfalto e l’erba,
vicino al risucchio vuoto
delle auto lanciate nella notte.
Cammino sotto le insegne sbiadite dei Motel
dove i camion fermi a bordo strada
esalano odore ancora caldo di benzina,
e i suoni della città insonne
arrivano attutiti in un ronzio lontano.
In questa terra di nessuno ascolto
il bisbiglio dei secoli futuri,
perso negli amniotici echi
di un epoca orfana di madre.
VENEZIA
Uno spazio preso
alla mutevolezza informe,
dai confini liquidi.
Venezia maschera di
eleganza raffinata
le sue viscere d’acqua e pietra,
linfa d’ori e metalli vili
nelle vene della fiera apocalittica,
crogiolo di mondi compositi
ammucchiati
in sotterranei umidi
tracotanti inutili tesori,
raffinate stoffe ammuffite
memori di lussurie
incestuose
e abusi di profumi
orientali.
PERUGIA
Per avarizia, forse,
non per saggezza serbata
rivela ancora bellezza,
la papalina rocca serva
incensata di secolari
odori.
Suonano sui ponti
i cantautori mancini,
esito di compiuta mutazione
da accademia ignorata.
Il vuoto di neolaici pensatori
si ostenta in templi
anticlericali:
la cura, certo, fu peggior del male,
come sa la ricercata Benedetta,
virtuosa altolocata.
Perugia, spodestata e provinciale,
dimentica del suo pudore antico
si concede,
dissoluta ed inebriata,
per più di quanto vale.