Iniziamo dal suo film: “Quanto basta” è una commedia che tratta con estrema delicatezza il tema dell’autismo. Perché ha scelto questo soggetto e dove nasce questa idea?
Il mio primo lungometraggio, “Emma sono io”, trattava di una donna con sindrome bipolare. Anche qui ho voluto interrogarmi sul sottile confine tra normalità e non normalità, qui è presente lo stesso meccanismo di ribaltamento tra chi aiuta e viene aiutato, tra chi cura e chi viene curato. All’inizio pensavamo di fare un film più incentrato sulla figura del cuoco perché questo mestiere si prestava bene a rappresentare un quarantenne in difficoltà che, attraverso l’incontro con una persona diversa e con altrettante difficoltà, apparentemente opposte e inconciliabili, in qualche modo riusciva a cambiare qualcosa. Lo schema era quello del buddy movie, dell’amicizia impossibile, della strana coppia, della relazione che capita per caso, con quella persona che poi si rivela l’amico o la salvezza.
Perché proprio un ragazzo con la Sindrome di Asperger?
Avevamo pensato a un allievo con una qualche forma di disturbo. Così abbiamo fatto dei sopralluoghi e incontrato dei ragazzi autistici che seguivano corsi di cucina. Tra loro c’erano diversi gradi di autismo: autistici verbali, quelli non verbali e i cosiddetti Asperger. Questa patologia rappresentava al meglio il confine che era già nel tema iniziale: un disturbo non troppo evidente, che rischia di essere trascurato, ma abbastanza serio da creare forti difficoltà di interazione sociale. Quindi era l’ideale per noi.
Nel 2002 “Emma sono io” e quasi vent’anni dopo “Quanto basta”. Possiamo dire che Falaschi che è fortemente affascinato dalla neurodiversità?
Faccio spesso riferimento alla citazione di Temple Grandin, una grande scienziata con sindrome di Asperger, che
Parlare di disabilità al cinema ha un ruolo anche sociale?
Sì, queste tematiche sono emblematiche nella descrizione della condizione umana. Il progetto sugli hikikomori, ad esempio, è cofinanziato da un ente che si occupa di salute mentale e indaga sulle dipendenze digitali. Abbiamo scavato fino a vedere il disagio scolastico, affrontato il tema dell’esistenza di ognuno, della paura di fallire e della capacità di gestire il fallimento.
Quando si affrontano questi temi, la disabilità in particolare, si corre il rischio di far assumere al personaggio una sorta di caricatura. Si tratta di un processo molto delicato. Quando lei ha chiesto a Luigi Fedele di interpretare il personaggio di Guido, qual è la richiesta che gli ha fatto per non eccedere e per non cadere nella banalità, nella banalizzazione del malato?
Lei è riuscito a integrare quindi nel mondo del lavoro anche delle persone affette da Asperger, che è appunto il tema del film.
Sono stati coinvolti partecipando al set. Sul set si è creata un’atmosfera di realismo e di rispetto, stavamo raccontando in forma di fiction la loro vita, fatta anche di fatiche e difficoltà. Questo ha aumentato il rispetto, la dedizione e la cura di tutti noi verso il lavoro che stavamo facendo. In particolare, la prima e l’ultima settimana sono state le più dure, per via dell’organizzazione e dei rapporti.
Oltre a frequentare questi ragazzi, vi siete avvalsi anche del supporto di specialisti in malattie neurologiche o di psicologi?
Abbiamo ricevuto consulenze da parte di psichiatri, psicologi e logopedisti. Abbiamo incontrato molti genitori di
“Quanto basta” è un film essenziale anche nella scelta del titolo. Un inno alla semplicità che usa la cucina come metafora di un mondo che “ha più bisogno di un perfetto spaghetto al pomodoro che di un branzino al cioccolato”. Questa essenzialità riflette un po’ il suo cinema, la sua filosofia di vita?
Il primo corto che ho fatto si chiamava “Furto con destrezza” e, tra l’altro, era parte di un film collettivo con il regista Francesco Miccichè, anche lui ospite al MittelCinemaFest. Fu apprezzatissimo e mi portò anche tanta fortuna. Solo che nei festival arrivava sempre secondo e non vinse mai grossi premi. Così lo sceneggiatore di allora mi disse: «È un bel panino alla mortadella ma non è che può vincere il premio della cucina. Però come te lo mangi!». Per questo credo che il fatto di pensare a qualcosa di semplice, che però abbia gli ingredienti giusti, sia una cosa che mi viene naturale. Non so se il mio cinema sia un perfetto spaghetto al pomodoro, diciamo che però cerca di esserlo. Anche se ho in vista di fare un po’ di sperimentazione, penso che rimarrò su questa strada.
Gli show di cucina sono diventati molto popolari negli ultimi anni, alcuni chef sono diventate delle vere star televisive. Il film sembra quasi prendersi gioco di questi personaggi, che opinione ha a riguardo?
L’opinione è critica ma non troppo sarcastica, non tanto ironica. Un ristorante stellato può anche fallire in poco tempo e quindi è legittimo che i cuochi talvolta integrino la loro attività con questi programmi televisivi. Ma ci tengo tanto alla scena in cui chef Marinari parla di politica in televisione, perché ormai chi diventa famoso si sente legittimato a parlare anche di argomenti che non lo competono. Quindi questa è un po’ una piccola vendetta (ride, ndr).
Parliamo ora del legame con la sua terra. Tutti i suoi film sono ambientati in Toscana, solo uno è ambientato a Marrakech. Quanto è importante la Toscana nei suoi film, il suo essere toscano?
Lei ha iniziato come critico cinematografico su Segnocinema. Come è passato dall’altro lato e quanto ha influito questo tipo di formazione sul suo lavoro come regista?
Ho iniziato a fare il critico perché avevo voglia di fare cinema, di occuparmi di cinema. Il mio percorso è quello di un film maker come Truffaut, al quale non potrei neanche lontanamente paragonarmi, che ha iniziato occupandosi di cinema sui “Cahiers du cinéma”. Il meccanismo è lo stesso: mi voglio occupare di cinema, voglio capire, voglio esprimere la mia opinione, voglio trovare una mia visione in questo modo.
Non si rischia di diventare perfezionisti facendo questo passaggio nella propria arte?
Secondo me no, perché comunque per me fare cinema è soprattutto scriverlo. Un film nasce in quelle venti
Falaschi è critico, regista, insegnante. Quando la vedremo come attore?
In realtà, la prima esperienza di cinema è stata come attore in una specie di docufiction, con un amico folle, un musicista che fece questo esperimento cinematografico. Al saggio di diploma, praticamente aveva litigato con tutti i suoi compagni di corso e mi chiamò perché sapeva che ero appassionatissimo di cinema. Io ero quello che a quindici anni andavo da solo al cinema a vedere i film di Nanni Moretti che arrivavano in provincia in maniera clandestina. Personalmente ho molta fiducia negli attori, cerco di ascoltarli molto. Anzi, credo proprio che le figure che ogni regista dovrebbe ascoltare maggiormente sono appunto: il montatore e gli attori. Il primo è una figura centrale nella realizzazione di un film e i secondi si trovano talmente al centro del sistema che diventano l’antenna più preziosa.
No, purtroppo no. Il montatore con cui vorrei continuare a lavorare è Claudio Di Mauro, che ha montato alcuni dei miei corti e ha montato anche “Last Minute Marocco”. Anche se in quel caso ha poi ritirato la sua firma per alcuni dissidi con il produttore. Penso sia stato il primo film della storia del cinema in cui il regista e il montatore volevano tagliare delle scene e il produttore voleva tenerle. Poi ho lavorato anche con un montatore più giovane: Simone Manetti, che ha iniziato con Virzì e ora fa il regista. Certamente per la realizzazione di un film è importante avere una grande intesa e complicità con il montatore. Sono necessarie due teste che hanno un’idea molto simile del film, magari discutono su qualcosa ma poi ci si deve trovare.
Il MittelCinemaFest è stato organizzato dall’Ambasciata d’Italia a Praga, dall’Istituto Italiano di Cultura, dalla Camera di Commercio e dell’Industria Italo-Ceca, dall’ENIT, dall’Istituto Luce Cinecittà e dal cinema Lucerna di Praga, in collaborazione con il Comune di Praga, UniCredit Bank, Ferrero, Segafredo, Hotel Alchymist di Praga, Fondazione Eleutheria, Italian Business Center, Progetto Repubblica Ceca e numerosi altri partner.
Di Martina Magnaldi e Graziano Aloi