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“Forse un giorno saremo tutti artisti”. Intervista al collezionista Pavel Konečný sul crescente fenomeno dell’art brut e su Pietro Moschini, autore da poco scoperto.

Quattro anni fa la sua collezione è stata esposta nella galleria dello skanzen dell’architettura popolare a Příkazí, non lontano da Olomouc dove il collezionista Pavel Konečný vive. Quest’anno parte della sua collezione ha costituito la mostra “Outsider Art : La collezione di Pavel Konečný” che si è tenuta presso la Galleria Montanelli in via Nerudova. L’ex direttore della Sovrintendenza alle Belle Arti di Olomouc segue da 40 anni lo strano fenomeno chiamato art brut. Il collezionista, oggi già in pensione, non intende rimanere inattivo e così si dedica all’ampliamento della sua copiosa collezione e ha in programma di far uscire ogni anno una pubblicazione di „Marginalia“ circa un autore iscrivibile all’ambito della creazione non professionale che non sia conosciuto, magari scoperto da lui stesso. La terza pubblicazione di questa serie sarà dedicata allo scultore e intagliatore italiano Pietro Moschini originario della piccola città di Tuscania, non lontano da Roma. Per Café Boheme abbiamo avuto il piacere di fare due chiacchiere con Pavel Konečný su questo autore finora sconosciuto e anche su come le espressioni dell’art brut restituiscono alle persone il sentimento e la spontaneità che a volte l’arte contemporanea non sa o non può dar loro.

Ci può spiegare che cosa si intende con art brut e dove si trova il confine tra questa forma artistica e l’arte tradizionale?

Art brut è uno dei termini con il quale si definisce la creazione spontanea, non professionale, di quegli autori che non hanno una formazione artistica e spesso vivono ai margini della società, di solito si tratta di persone anziane. Possono essere anche artisti socialmente esclusi come i detenuti oppure i pazienti psichiatrici. In poche parole si tratta di un atto creativo spontaneo e autentico che sgorga dalle più profonde ed essenziali esigenze esistenziali dell’autore. Inoltre, è necessario distinguere l’art brut dall’arte naïf i cui autori guardano con ammirazione all’arte accademica che per loro rappresenta un modello irrangiungile e di cui sono a conoscenza, mentre  per gli autori di art brut l’arte come tale è indifferente, spesso creano solo per se stessi e magari la loro opera, anche molto estesa, viene ritrovata solo dopo la loro scomparsa. Non cerca la pubblicità, per loro l’attività creativa è una necessità. Al contrario l’artista naïf cerca comunque di raggiungere una determinata professionalità e perfezione. Inoltre l’art brut si distingue anche dall’arte popolare che in modo cosciente si rifà alle tradizioni storiche ricorrendo alle tecnologie e ai materiali già in uso.

Ma comunque queste tre forme d’arte sono in qualche modo legate.

Sì, può succedere, per esempio, che un autore si muova tra la creazione naïf e l’art brut, oppure tra l’arte popolare e l’art brut. In questo caso le frontiere sono aperte e, alla fine, dipenderà da diversi fattori quale carattere dell’opera rispetto agli altri risulterà in evidenza.

Qual è l’approccio ufficiale della critica artistica verso l’art brut? Chi decide se l’opera è art brut oppure è soltanto una creazione amatoriale?

Il termine art brut fu introdotto dal pittore francese Jean Dubuffet poco dopo la seconda guerra mondiale. Con esso si riferiva in modo molto negativo alla produzione accademica corrente e voleva, al contrario, evidenziare (cosa che ha anche fatto con la sua estesa attività di collezionista) proprio la già citata autenticità, la genuinità, la necessità esistenziale dell’uomo di creare e, in questo modo, di esprimere in modo spontaneo i propri sentimenti più intimi. E così si focalizzò sulle cliniche psichiatriche che visitava in tutta l’Europa centrale e da cui tornava con opere artistiche molto particolari – documenti di pura ricerca personale così lontani dalla superficialità, l’affettazione e l’ipocrisia della comune produzione artistica. Detesteva soprattutto la speculazione dell’arte contemporanea e per questo cercava l’autenticità assoluta, la creatività non toccata dall’inflazionato circuito commerciale delle gallerie e dei musei. Desiderava soltanto collezionare e temeva che l’imitazione e l’involontaria nascita dell’ennesimo ismo avrebbe portato al soffocamento della purezza scoperta di questa modalità di manifestazione. Ma da quel momento lo sviluppo è andato molto avanti. Dubuffet stesso corresse le proprie opinioni molto intransigenti e, dopo una lunga riflessione, permise che nascesse una rappresentazione permanente della sua collezione a Losanna in Svizzera. Con il tempo, soprattutto in America dove come equivalente viene piuttosto usato il termine outsider art, cominciarono a nascere delle gallerie specializzate su questo tipo di espressione artistica e, così, gradualmente sono venuti alla luce dei „classici dell’art brut“ e il calcolo e il commercio cominciarono ad infiltrarsi anche in questo strano mondo parallelo.

In sostanza il processo si ripete come per gli altri stili artistici.

Possiamo dire così anche se dobbiamo sottolineare che l’art brut decisamente non ha carattere stilistico. Ogni autore è un artista originale e inconfondibile. Questo sviluppo è proseguito fino ad oggi quando assistiamo ad una certa instituzionalizzazione di questo fenomeno peculiare. Nascono musei, gallerie, riviste, pubblicazioni approfondite ma anche aste autonome focalizzate esclusivamente sull’art brut. Questo la include gradualmente nel mercato attuale dell’arte. Sembra, dunque, uno sviluppo naturale che non può essere ostacolato. Quindi dipende sempre molto dal gallerista, il collezionista o il curatore della mostra riuscire ad evitare la speculazione e portare avanti le cose davvero di qualità.

Agli occhi dei critici di allora, che avevano come ideale grandi maestri come Delacroix, anche l’opera degli impressionisti, e più tardi di Van Gogh, poteva sembrare art brut, nonostante il fatto che questi autori, inizialmente disprezzati, in pratica abbiano gettato le fondamenta dell’arte contemporanea. Le chiedo, quindi, se, magari, anche l’art brut non potrebbe essere l’inizio di qualcosa che poi verrà considerato come l’arte del XXI secolo.

Naturalmente è difficile prevederlo, però è davvero sorprendente quanto sia grande la quantità di questi autori: ne vengono scoperti sempre di nuovi. All’inizio avevo l’impressione che fosse possibile catalogare nell’art brut soltanto pochi autori che la „soffocante“ cultura di massa avrebbe spinto verso l’unificazione. Ma oggi, grazie anche al fatto che alcune gallerie prendono parte a questa ricerca, ne vengono scoperti sempre di più. Ciò è una cosa certamente positiva. Ad esempio l’antropologo Gabriele Mina nel suo libro Costruttori di Babele, uscito poco tempo fa per Eleuthera dove mappa questo fenomeno, ne ha trovati in Italia decine. A Parigi, nella mostra ancora in corso Banditi dell’arte è esposta tutta una serie di autori interessanti. Si tratta, comunque, di autori senza dubbio originali che di certo non creano per il successo o il commercio. Naturalmente anche nell’art brut esiste un certo rischio che ha riguardato alcuni autori della cosiddetta scuola di Hlebine dell’arte naïf jugoslava. Questi artisti naïf hanno scoperto che quello che facevano era un articolo molto ben vendibile e ciò ha ucciso la loro arte. È vero che oggi creano, o, per meglio dire, „producono“ dei quadri. Ma la genuinità e la sincerità sono sparite dalle loro opere ed è rimasta soltanto una forma vuota, a volte al limite del kitsch.

Pensa che questo bisogno delle persone come lei di cercare l’autenticità e la sincerità deriva anche dalla stanchezza nei confronti dell’arte contemporanea sommersa dal commercio e spesso talmente astratta da perdere il rapporto con il mondo e apparire piuttosto solo come una questione personale dell’autore?

Sì, penso che lei abbia ragione. Ad esempio l’ultima Biennale di Venezia era basata esclusivamente sull’arte concettuale che a volte non riceve la comprensione e l’interesse del pubblico. Al contrario, grazie alla mia esperienza personale (alle spalle ho già sette collezioni), vedo che le persone reagiscono a questo tipo di art brut, e non solo per la sua immediatezza, ma anche per l’inusuale forza interiore di immagini che arrivano direttamente dalla parte oscura del mondo. Forse ha ragione a dire che le persone oggi sono sature e stanche dell’arte moderna e che trovano questa forma di creazione spontanea molto più interessante.

Perché ha deciso di collezionare e dedicarsi proprio a questo tipo di arte?

Cominciai a collezionare già durante i miei studi all’università nel 1972. All’epoca in Cecoslovacchia si tenne una serie di mostre di arte naïf dietro la cui nascita stava l’organizzatore e teorico dell’arte Arsén Pohribný. Alcuni degli autori esposti erano direttamente di Olomouc oppure delle immediate vicinanze, come per esempio Anna Zemánková oppure Antonín Řehák, e così iniziai a seguire con regolarità il loro lavoro. L’impulso maggiore per me fu la Triennale di Bratislava di arte insitus che si teneva regolarmente dal 1966 in Slovacchia dove per questo tipo di arte utilizzano il termine latino del teorico Štefan Tkáč – insitus che significa pulito, originario, vero. Nel 1972 si è tenuta la terza triennale internazionale di arte insitus che mi stregò letteralmente e così decisi in modo definitivo quale sarebbe stata l’area di collezionismo qui mi sarei dedicato.

In considerazione del fatto che ha lavorato come dirigente della Sovrintenza alle Belle Arti mi interesserebbe sapere se i contorni che abbiamo delineato tra l’arte contemporanea normale e l’art brut possono essere applicati anche all’architettura, ovvero se anche qui abbiamo un’architettura moderna standard e un’architettura “art brut”.

Sì, esiste. Io stesso mi stupisco di quanto sia ampio e ancora poco studiato questo campo. Esiste, infatti, qualcosa che viene chiamato “architettura spontanea”, è particolarmente diffusa in Francia, ma possiamo incontrarla in tutto il mondo. Ad esempio a Hauterives, vicino a Lione, Ferdinand Cheval all’inizio del XIX secolo in 33 anni costruì assolutamente da solo con pietre e altri materiali raccolti nei dintorni un colossale palazzo ideale con grotte e torri. Era un semplice postino che una volta inciampò in una pietra che gli piacque. Da quel momento non fece altro che costruire il palazzo dei suo sogni. Alla fine l’opera architettonica di tutta una vita fu stata dichiarata monumento culturale ed è tutelata dallo stato. Un’architettura spontanea simile, ad opera di Raymond Isidor, si trova a Chartres e si chiama La Maison Picassiette. Negli Stati Uniti, a Los Angeles, possiamo trovare le stupefacenti Watts Towers dell’immigrato italiano Simon Rodia. E potremmo continuare a lungo.

Quindi qualcosa à la Gaudì?

Sì, alcune forme assomigliano molto a quelle create da Gaudì. Sono soprendentemente tanti gli autori di architettura spontanea di questo tipo in Francia, America, Italia, Germania, Canada e in tutto il mondo.

Tornando alla filosofia dell’art brut pensa che prevalga un qualche contenuto portatore di un determinato messaggio oppure ha un carattere piuttosto universale nel quale troviamo tutto ciò che è umano?

Non penso che si possa trovare un minimo comun denominatore a parte l’autenticità e l’impellente esigenza di creare. Naturalmente riscontriamo sempre quello che ha influito sull’autore in questione, quello che lo interessa o lo fa soffrire. Vi si può manifestar anche qualche patologia psichica. Infatti, buona parte di questi autori ha, oppure ha avuto, dei problemi psichici che spesso sono stati il meccanismo scatenante della loro creatività fino a quel momento nascosta. Ma non è una condizione. Decisamente l’art brut non è un’etichetta che può essere usata, o meglio abusata, per un contenuto inesistente. Un collezionista esperto dovrebbe saper riconoscere un tentativo di questo tipo.

Che cosa si aspettava dal suo viaggio in Italia?

Quando sono andato in Italia quest’anno desideravo soprattutto documentare fotograficamente l’opera che mi aveva sorpreso così tanto a distanza. Nel Sud della Sicilia, non lontano da Agrigento, nella città termale di Siacca, viveva lo scultore Filippo Bentivegna che prima della prima guerra mondiale fuggì in America. Dopo un incidente alla testa fu rimpatriato perché non poteva più lavorare. Per i successivi 40 anni della sua vita solitaria raccolse le pietre sul terreno che aveva acquistato – un oliveto – e intagliava in esse migliaia di teste che sono rimaste lì dopo la sua morte. La località si chiama Il Castello Incantato. Di sé diceva di essere un re e che le teste che creava erano i suoi sudditi. La seconda sosta del mio viaggio è stata la città di Tuscania nel Lazio dove casualmente avevo scoperto su Internet l’opera unica di un autore sconosciuto di art brut: Pietro Moschini (1923 – 2011).

Che cosa l’ha colpita di più di Moschini?

In particolare la qualità e l’originalità delle sue creazioni ma anche il modo in cui le ho scoperte. Di solito ciò capita durante qualche mostra quando incontrate l’autore che vi interessa, oppure esistono già delle pubblicazioni su di lui e così magari gli scrivete. Ma questo autore, in realtà, l’ho trovato su Internet quando, per una coincidenza incredibile, incappai nel diario fotografico di alcuni turisti italiani che avevano visitato Tuscania e si erano incontrati con lui. All’epoca Moschini li invitò ad entrare a casa sua e loro poterono fotografare il suo lavoro. Poi caricarono le foto su Flickr. Qualche tempo fa rimasi esterefatto davanti al monitor. Così contattai per email questi turisti ma non si ricordavano granché. La Proloco di Tuscania non sapeva niente di Moschini e così mi venne in mente di contattare per email qualche artista locale. Mi rispose un certo Mario Ciccioli dicendomi che era suo amico ma che purtroppo Moschini era morto poco tempo prima. Così mi offrii di aiutare Ciccioli a documentare il grande lascito di questo artista. E così poi decisi di visitare Tuscania e conoscere l’opera di Pietro Moschini in modo più dettagliato.

Cosa trovò a Tuscania?

Fu una sorpresa incredibile. L’artista aveva lasciato una grande quantità di opere bellissime scolpite o intagliate nella pietra, nel gesso, nel sughero, nel leglio, nel cemento poroso. Insomma, qualcosa di fantastico, pensai che fosse necessario documentare tutto e, se possibile, provare a salvare le opere integre per le prossime generazioni. Insieme a Ciccioli siamo riusciti a convincere la famiglia di Moschini della qualità unica della sua opera e, alla fine, i suoi parenti decisero di creare un piccolo museo nel pianterreno della casa dove viveva e operava. Nella presentazione di Moschini mi ha aiutato la professoressa Eva Di Stefano dell’Osservatorio Outsider Art di Palermo che è un istituto dell’università locale che si occupa di questo tipo di arte e pubblica due volte all’anno un’eccellente rivista elettronica (outsiderart.unipa.it).

Perché la mostra della sua collezione si è tenuta proprio nella Galleria Montanelli?

La Galleria Montanelli collabora con la curatrice Terezie Zemánková, la nipote dell’autrice ceca di art brut conosciuta in tutto il mondo Anna Zemánková, che qui ha organizzato già numerose esposizioni e, dato che conosceva la mia collezione, mi ha offerta di esporre qui a Praga per la prima volta. Si tratta della settima esposizione delle opere della mia collezione.  In questo caso è stata arricchita delle statue di Pietro Moschini e di un altro artista italiano di art brut: Anselmo Crovara di Manarola.

Pensa che sia realistico pensare ad una mostra di di Moschini a Praga?

Penso che realistico lo sia certamente. Si tratta però di artefatti tridimensionali, per questo sarà decisiva la questione del trasporto delle opere ma non ci vedo niente di impossibile. Naturalmente qualora si trovassero uno spazio espositivo adeguato e i mezzi finanziari necessari per la realizzazione della mostra.

Che cosa la attira così tanto di Moschini?

Di Moschini mi piace il fatto che, nonostante fosse un semplice contadino senza conoscenze di storia dell’arte, la sua opera è molto vicina all’arte etrusca o a quella romanica ma, al tempo stesso, ha anche un’impronta molto personale, inconfondibile. Sono incredibili i risultati che riusciva ad ottenere con interventi anche minimi sui vari materiali che utilizzava. Come mi ha confermato la stessa professoressa Eva Di Stefano di Palermo o l’antropologo Gabriele Mina di Savona si tratta di una grande scoperta di un autore davvero originale e di qualità che, stranamente, non era noto nel mondo italiano dell’art brut ed è sfuggito anche all’attezione delle istituzioni regionali. Quasi non vendeva le proprie opere e, così, dopo la sua morte sono rimaste molte opere intagliate e scoplite piene di una forza che esprime una vera e propria poesia.

Dove possiamo cercare le radici della sua arte?

Senza dubbio l’ambiente storico circoscritto del piccolo paese di Tuscania lo influenzò molto. Per questo motivo desidero aggiungere nella pubblicazione che sto preparando su Moschini alcune foto di questi splendidi edifici romanici e gotici tra i quali ha trascorso la sua vita e che hanno sostituito la sua istruzione mancante. A Tuscania si può sentire il genius loci trasudare da ogni pietra e da ogni singolo pezzo dell’affascinante architettura, dalle decorazioni delle statue e dalla stessa urbanistica della città miracolosamente conservatasi. Non è un caso, infatti, che alcuni registi abbiano usato l’aspetto pittoresco e autentico dei monumenti della città e dei bellissimi dintorni intatti. Ad esempio il regista Franco Zeffirelli girò all’interno della chiesa di San Pietro di Tuscania la scena di Romeo che trova Giulietta in fin di vita. Anche Pier Paolo Pasolini amava girare qui. Scelse questo ambiente per alcune riprese del suo film Uccellacci e Uccellini. Ma del resto di registi rimasti incantati da Tuscania ce ne sono stati molti di più. Tra questi anche Orson Welles, Mario Monicelli o Andrej Tarkovskij.

Desidera aggiungere ancora qualcosa in chiusura?

Vorrei solo dire che sono fermamente convinto del fatto che lo scultore autodidatta Pietro Moschini (1923 – 2011) presto verrà incluso, insieme alla propria opera, tra le grandi personalità di Tuscania e che nel campo dell’art brut diventerà conosciuto così come già successo ad altri autori italiani prima marginali. Sarò lieto di poter contribuire a questa riscoperta.

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