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Facciamo che me ne vado. Racconti saltuari Di Gianluca Montebuglio

Vieni con me, che qui c’è una storia che finisce bene. C’è un’auto che somiglia a un suv senza esserlo per davvero, di quelle che le guardi pensando che scaleranno il Gran Sasso e invece, con l’impianto a gpl che si ritrovano di serie, al massimo non si impantanano quando piove. Aldo la guida svelto, Carla ha già messo  le cuffie al suo smartphone  per non dar retta ad Aldo. Carla da qualche tempo divaga in solitaria, si sbronza con se stessa ascoltando Steve Reich. Sofisticherie.  L’aria è condizionata, l’atmosfera è da viaggio deciso quando le cose erano diverse. Si va in vacanza. Hanno preso ferie per andarsene a rimuginare sui loro giorni, ma con il lusso di farlo in un albergo a Sirolo friendly con la Natura, con gli animali, con tutto ciò che fa fare il grano oggi, insomma. Abbiamo lasciato Milano stamattina prestissimo che se ne stava indaffarata a dormire. E chi dice che Milano non dorme mai, vuol dire che non la conosce. Milano sonnecchia di continuo, appena può. Perché Milano è stanca e non può permetterselo, allora non le resta che rubare tempo, cercare ristoro senza sosta. All’altezza di Bologna  Aldo sbotta a modo suo. Personalmente mi aspettavo almeno di imboccarla, la A14, e invece questo genio qua vince sul tempo. Lacrime patetiche cominciano a sgorgare zitte zitte da sotto i suoi occhiali, accompagnando poche parole, dure nelle intenzioni e ridicole nel loro prendere forma. Perché con uno che si depila, Carla? Ora, da questa domanda, puoi capire che Aldo è stato tradito da Carla con il suo istruttore di nuoto, e che Aldo usa il suo dissenso verso la depilazione maschile per arrabbiarsi delle sue corna. Io continuo a domandarmi cosa faccia di concreto un istruttore di nuoto, ma non mi sembra opportuno chiedere una risposta proprio ora. Ad ogni modo, qui succede altro. Carla, come già annunciato, ha Steve Reich nelle orecchie ma, guarda un po’, si ricompone  lentamente in un attimo, pur continuando nel suo ascolto di un musicista che, detta come va detta, conosce solo lei e quel  collega gay con cui va a pranzo quasi tutti i giorni. Toglie i piedi dal cruscotto anteriore, ma non accenna nessun tipo di risposta. Proprio nessuna. Guarda verso destra, guarda le auto e legge le uscite della tangenziale che lungo tutto il suo percorso si allinea con l’autostrada, a Bologna. Silenzio. Silenzio a dismisura. Aldo non trova riposta, né pace. Tenero.  Sono solo le otto meno venti e già se ne sta lì a logorarsi il cervello. Stringe il volante , le vene delle mani si gonfiano. Le mani quasi cominciano a sbiancare. Senza esitazione sfila sul curvone dopo Castel San Pietro Terme e corre spedito verso il primo autogrill. Dopo qualche chilometro ci siamo dentro, nel parcheggio. Oltre l’edificio e i posti auto, c’è campagna ovunque. Campagna che a quell’altezza è oramai del tutto romagnola. E qui entro in scena io, che finora me ne sono stato buono buono, dietro le quinte a osservare. Aldo e Carla scendono, lasciando gli sportelli aperti. Si guardano in faccia senza parlare, né tacere. Sono tristi. Come una piscina vuota nel mezzo dell’estate, come un lutto a natale. Io raggiungo l’uscita dall’abitacolo senza che loro nemmeno se ne accorgano. La rabbia distrae. Mi allontano mentre sento Carla che dice “perché ero confusa. Perché avevo bisogno di tutto quello che tu non sei”. Sorrido di questa stronzata perché per un secondo mi ha condotto in un brutto film italiano o in qualche racconto sciatto, e perché Aldo ha pochissimi peli ben piazzati. Mentre sorrido, mi nascondo dietro un grande camion. È bellissimo, rosso e impavido. Il camionista si accorge della mia presenza, si affaccia dal finestrino e per un secondo ce ne stiamo lì a scrutarci. Mi sorride senza timore e scende dalla sua bestia milleruote. A quel punto, mentre assesta le mutande e si raddrizza il pacco, salgo sul camion e mi acquatto sulla parte destra del sediolino. Risale anche lui. Guarda la mia medaglietta e si presenta: Piacere Folco, io sono Arturo. Arturo è di Benevento, è pieno di peli e gira tutta l’Europa. Io sono un lupo cecoslovacco di sessanta chili. Chissà perché di noi cani, voi umani, rimarcate sempre il peso. Dovremmo tutti avere la possibilità di scegliere il pardrone e di cambiarlo se non ci sta bene.  Aldo e Carla sono ancora lì a parlarsi addosso. Li vedo dal finestrino. Poveri Cristi. Arturo fa il trasportatore per l’Antica Acetaia Malpighi. L’aceto è la dimostrazione che c’è del buono anche in certe cose andate a male.

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