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Bruno Munari, futurista.

Volendo valutare un artista non in base al successo di mercato ma per la sua importanza storica, ci si accorge che Bruno Munari è indubbiamente tra i più significativi artisti del Novecento. La sua opera è sempre innovativa e sotto molti aspetti rivoluzionaria e soltanto chi non la conosce bene può pensare, vedendola solo superficialmente, che sia troppo multiforme e dispersa in troppe esperienze diverse. Quando si analizza il suo lavoro artistico attentamente, però, emergono la massima coerenza della sua ricerca estetica ed il significato delle varie esperienze.

Munari ha cominciato a frequentare l’ambiente artistico alla fine degli anni Venti, nel contesto del movimento del secondo futurismo guidato da Filippo Tommaso Martinetti e da subito Marinetti lo considera il più geniale della nuova generazione.

Questa fase del suo lavoro è tuttora poco conosciuta, malgrado il fatto che fin da quel periodo il lavoro di Munari si disponga verso i distinti indirizzi del suo pensiero estetico. In quell’epoca, infatti, emergono già le idee dominanti che lo accompagneranno nel corso di tutta la sua attività. Concepisce contemporaneamente le macchine inutili, aeree, stabili, i disegni antropomorfi, le pitture gestuali, le pitture astratto geometriche chiamate Anche la cornice, i percorsi tattili e progetti di performances come per esempio la partitura coreografica del 1935 chiamata Danza sui trampoli. Tutti questi lavori apparentemente dissimili hanno però sempre in comune un tratto individuabile, che li collega assieme. Per esempio la Danza sui trampoli evoca un’idea tridimensionale delle sue Scritture illeggibili di popoli sconosciuti.

Dopo la seconda guerra mondiale Munari, comunque, non parlava con nessuno in Italia della sua esperienza futurista. Alle domande dirette sorvolava o trovava modo di eludere l’argomento e molti si sono convinti, quindi, che volesse rinnegare il suo passato futurista o che, perlomeno, non avesse più le opere, ma questo non era esatto. La sua era semplicemente una reazione di autodifesa ad una condizione della politica italiana che accomunava i futuristi al regime fascista. Una demagogia semplicistica perché il primo Futurismo ebbe il suo momento più importante precedentemente e nel corso della prima guerra mondiale. Per di più anche il legame di Marinetti con il fascismo non era di adesione totale.

In verità negli anni ’30 il movimento del secondo futurismo non era certo l’arte privilegiata dal regime, basta osservare le poche mostre che avevano allestito e certamente in posti non molto prestigiosi. Non era certo a loro favore la tradizionale connotazione futurista decisamente anti-tedesca.

Ho discusso questo argomento varie volte con Munari riuscendo a farmi raccontare le vicissitudini e mostrare le opere del periodo relativo. Egli era contento di trovare disponibilità da parte di un teorico d’arte che, tra l’altro, avesse vissuto, come lui, la giovinezza in un regime totalitario e che ne poteva capire le dinamiche. Penso che questo fosse il motivo per cui riuscii a convincerlo ad esporre nel 1986, dopo tanto tempo, le sue opere futuriste nella mostra Progetti e oggetti, che ho curato nello spazio di UXA studio d’arte contemporanea a Novara.

Per poterci orientare nel suo lavoro dovremo seguire le vie principali dei suoi interessi che sono l’esplorazione delle potenzialità percettive e sensoriali e la ricerca del superamento dei limiti oggettivi. Questa analisi individua il filo conduttore attraverso tutto il suo lavoro. Vuol dire che nelle opere di Munari possiamo scorgere sempre lo stesso linguaggio visivo elaborato, però, continuativamente in tutte le variazioni possibili con la massima semplicità e con l’organicità di un pensiero concreto ed esperto. L’artista era ben conscio di questa coerenza nel suo lavoro e addirittura è stato lui, anche se più avanti nel tempo, a definire le differenze tra arte e artigianato, stile e styling.

 Differenza tra arte, artigianato e design e uso del metodo creativo

Lo schizzo Motociclista del 1927, una delle sue prime opere, era ripiegato in quattro, perché Munari lo portava in tasca per avere la possibilità di utilizzarlo all’occorrenza, come esempio, nelle accese discussioni, che fervevano allora tra i giovani futuristi. Disegnato su ambedue i lati, da una parte rappresenta un motociclo in corsa dall’altra un abbozzo dello stesso per una possibile pubblicità della Pirelli. Si tratta di una testimonianza non solo del dibattito che avveniva tra i futuristi sulle problematiche relative al dinamismo e alle possibilità dell’espressione del movimento, ma dimostra anche, che già a quell’epoca Munari discerne tra il linguaggio della creatività libera, artistica e quella dell’arte applicata, per la quale è necessario utilizzare un metodo progettuale. Problema che in seguito analizzerà nei suoi libri.

Tuttavia l’adesione di Munari al movimento futurista, diventa complessa. Rispetto ai suoi coetanei, che nel ambito del secondo futurismo tornavano alla pittura, Munari fa sua l’idea futurista iniziale, quella del dinamismo e dell’arte totale, che vuole conquistare tutti i sensi. A differenza di molti suoi colleghi, che affrontano loro lavoro iniziando da soluzioni complesse per semplificarle durante l’evoluzione dell’opera, Munari sorprende perché inizia il suo lavoro partendo già da un concetto essenziale per esplorarlo da tutte le possibili prospettive ed in tutte le immagini possibili.

Questo significa che un approccio verso la sua ricerca estetica deve essere sempre multidirezionale, Munari diceva che bisogna pensare in modo almeno tridimensionale.

 Concetto di arte sviluppata nello spazio

Fin dall’inizio della sua attività, la sua propensione artistica aspira a trascendere lo strumento espressivo, se stesso ed i limiti dell’umanità. La rottura con l’idea dell’arte limitata solo a pittura, scultura o al massimo all’oggetto, per Munari avviene già nel 1930 quando comincia a creare le prime macchine inutili che diventano anche il primo tentativo di creare arte come ambiente, e forse le possiamo, addirittura, già chiamare istallazioni.

Ci sono state diverse discussioni sulla datazione di queste opere. I primi esemplari non si sono comunque salvati, cosi anche della Macchina aerea esiste solo il multiplo prodotto nel 1971. Il dibattito era anzitutto incentrato sul quesito se l’idea di un’opera appesa e mobile, l’avesse concepita prima Alexander Calder o Munari. Una competizione piuttosto irrilevante perché i due artisti usano questo mezzo in un modo decisamente diverso ed inoltre, come Munari faceva spesso notare, esistevano già da molto tempo antichi oggetti etnici come gli scacciapensieri che venivano sospesi in alto dal soffitto generando nel loro movimento dei suoni. La controversia viene risolta, quando nel 1995 nell’ambito della mostra Far vedere l’aria a Zurigo vennero esposti documenti che dimostravano che Munari realizzò le sua prima macchina inutile nel 1930, tre anni prima di Calder. In ogni modo la verità è che entrambi ebbero quest’idea indipendentemente, anche perché in quel periodo non si conoscevano. Si incontrarono solo dopo la guerra e divennero amici tanto da scambiarsi alcune opere.

L’idea di un oggetto appeso e mobile venne a Munari nel 1930 quando affittò a Milano dei locali assieme a Riccardo Ricas per poter aprire lo studio di grafica R+M. In fondo al corridoio era rimasta una stanza vuota che Munari pensò di usarla per costruire un opera d’arte. Appese al soffitto, sistemandolo al centro dello spazio, un oggetto che doveva essere una macchina, la più elementare possibile, una leva, dunque. Mi raccontò che nella stanza buia aveva illuminato l’oggetto in modo che potesse disegnare un gioco di ombre sulle pareti. Volendo collegare l’opera al concetto filosofico dell’inutilità dell’arte sceglie il titolo paradossale Macchina inutile.

Questo titolo, spesso, viene frainteso perché interpretato in chiave ironica. Questo malinteso avvenne quasi immediatamente, perché, nella prima mostra dove le espose, le sue macchine inutili entrarono in conflitto con l’esagerato entusiasmo dei futuristi nei confronti della meccanizzazione. Munari, invece, non aveva nessuna intenzione di ironizzare sul concetto della macchina ma voleva soltanto trasportarlo in un contesto artistico come si può capire benissimo dal Manifesto del macchinismo che scrisse nel 1938

Paradosso e gusto per l’assurdo

L’uso del paradosso è una presenza molto importante in tutta la sua l’attività, non solo quella artistica. Munari utilizza l’effetto del paradosso per scardinare degli stereotipi banali e cercando di stimolare l’elasticità mentale dell’uomo. In modalità visiva, lo usa pure per far convivere le forme geometriche assieme a quelle organiche.

Questa, infatti, deve essere la chiave interpretativa che fa intendere la ragione dei suoi disegni antropomorfi o zoomorfi, nei quali da una parte esplora l’ambiguità percettiva, che lo porterà verso la problematica spaziale dei negativi positivi e successivamente verso i disegni astratti chiamati Antenati nei quali è possibile identificare un volto, e dall’altra parte lo conduce verso un uso estetico della scrittura, intesa come stereotipo positivo ed elemento integrativo dell’opera. Il rilievo che Munari dà al paradosso è palese basta pensare ai titoli delle sue opere: Concavo convesso, negativo positivo, libri illeggibili ecc. Questo aspetto del suo lavoro viene soventemente trascurato o travisato, benché sintetizzi la facoltà di Munari di vedere sempre ogni cosa da lati opposti ed esplorare ogni argomento da diverse prospettive.

Scrittura e comunicazione visiva

Il tema della scrittura o addirittura dello stesso alfabeto è per Munari estremamente importante. È presente nel suo lavoro fin dagli inizi ed anch’esso prende spunto dalle esperienze futuriste.

Spesso degli scritti completano le sue opere spostando il concetto visivo su diversi livelli di lettura. In quest’ottica l’ABCDada del 1944, un insieme di tavole dedicate all’alfabeto, potrebbe essere un suo proclama di intenti. Non solo nei collage delle composizioni presenta tutto il suo complesso espressivo di materiali organici, ingranaggi, oggetti reali, impronte, trame e retini di stoffe varie ma le raffigurazioni sono completate da versi – giochi di parole dedicati a ciascuna lettera.

In quest’opera è possibile riscontrare tutta la sua fraseologia, ma è pure importante scorgere l’influenza di Enrico Prampolini, unico membro italiano del movimento dadaista, che è stato per Munari un importante punto di riferimento.

Munari mi raccontò, che l’opera nacque quasi per caso. Gli era stato commissionato un alfabetiere e quando ne completò il progetto si accorse che invece di un libro aveva creato un opera d’arte. Quindi mise da parte l’ABCDada e rifece un altro libro seguendo una metodologia progettuale idonea. Anche questa vicenda dimostra come era per lui importante saper distinguere tra arte e design.

La relazione tra le due forme di creatività che Munari gestiva è già stata sintetizzata da lui stesso nella semplice definizione “da cosa nasce cosa”. A volte nel progettare un oggetto di design, o grafica editoriale si inspirava ad una sua opera d’arte, come per esempio l’idea costruttiva del Gatto Meo e della Scimmietta Zizi in qualche modo dipende dalle opere Insetti precedenti di alcuni anni, o, viceversa, le perforazioni di carta che cominciava ad usare nei suoi progetti grafici, del quale abbiamo qui un esempio nel disegno del 1934, lo portano alla realizzazione dei libri illeggibili o ancora, quando gli viene proposto di pubblicizzare la penna biro, a Munari scatta la voglia di sfruttare la proprietà di questa penna, che lascia una traccia ininterrotta, nella serie di disegni intitolati Birografie.

Munari esplora le potenzialità della scrittura in tutti i suoi campi di interesse. Studia fino a che punto sia possibile comprimere e ridurre le lettere di una parola senza per questo comprometterne la leggibilità. Indaga i limiti della capacità percettiva nel processo di identificazione del soggetto rappresentato, per dare lo spazio al fruitore di completare un’immagine usando la propria fantasia e intuito.

 Uso di materiali umili per scoprire nuove dimensioni sensoriali

La Tavola tattile del 1938, che invece di essere concepita come un quadro, seguendo il modello delle esperienze tattili di Marinetti, come lo era la prima che Munari ha creato nel 1934, è una sequenza di materiali allineati sopra una lunga corteccia d’albero dove il tattile diventa un cammino delle dita, segnato dalle superfici ruvide delle carte vetrate, ravvivato dall’incontro con la mossa della piccola altalena di velluto, rallentato dalla superficie chiodata, successivamente scivola veloce su di un nastro di plastica. Tutta la composizione è completata da scritte indicanti il modo di procedere come se fosse non solo percorso sensoriale, ma una composizione musicale.

I materiali, in quel tempo non del tutto usuali per creare delle opere d’arte come trame di stoffe, brandelli di pelliccia, frammenti di ingranaggi di orologi, ricorrono spesso nel lavoro di Munari e rappresentano la volontà di ampliare la possibilità espressiva dell’artista. L’uso nell’arte di materiali poveri proposto nel volantino della “ricostruzione futurista dell’universo” del 1915 di Giacomo Balla e Fortunato Depero influenza Munari talmente che estende questo archetipo al punto di utilizzare per le sue elaborazioni addirittura delle verdure. Il guscio della Macchina inutile stabile del 1934 è, infatti, fabbricato adoperando una zucca essiccata.

Materiali poveri o recuperati, spesso sensuali come piume, pellicce o brandelli di stoffa altre volte ordinari come ad esempio resti vegetali, retini industriali o frammenti di meccanismi, che usa, vuoi per la loro tattilità, vuoi per le loro caratteristiche costruttive, distinguono tutto il suo operato artistico. Bisogna, però, sottolineare che Munari li usa sempre accuratamente dosati, solo lo stretto necessario per poter identificare il materiale. Sembra che, anche in questo caso vuole sperimentare quale sia il limite minimo della attitudine riconoscitiva. Questo minimalismo espressivo lo conduce ad analizzare una nuova spiritualità della tecnologia e gli dà movente per cercare di umanizzare la macchina..

 Antropomorfismo e zoomorfismo delle macchine

Gli Insetti, costruiti con fili metallici rivestiti di stoffa, ispirano i successivi oggetti chiamati Sensitive, che sono costruite con pezzi di legno colorati e stanghette metalliche elastiche. In qualche modo sono un aspetto opposto, ma complementare delle Macchine inutili, meccanismi elementari, delle leve, che in questo caso tremano al minimo tocco della mano.

Questa linea di sperimentazione lo porta a costruire, nei primi anni cinquanta, le Aritmie oggetti meccanici a molla, che bisogna caricare manualmente. Munari sfrutta il prevedibile e ripetitivo movimento del meccanismo a molla di un orologio caricato dal fruitore e lo trasforma, lo condiziona mediante la materialità della struttura nella quale lo include, che muta la sua movenza, in un susseguirsi di mosse, singulti e scatti, inaspettati e sorprendenti.

Nel suo Manifesto del macchinismo  Munari scrive: “Gli artisti devono interessarsi delle macchine, abbandonare i romantici pennelli, la polverosa tavolozza, la tela e il telaio; devono cominciare a conoscere l’anatomia meccanica, il linguaggio meccanico, capire la natura delle macchine, distrarle facendole funzionare in modo irregolare, creare opere d’arte con le stesse macchine, con i loro stessi mezzi.

Come già nei disegni antropomorfi o zoomorfi precedenti, Munari riesce anche in queste opere a gestire il paradosso delle forme astratte e figurative, ibridate assieme ad un meccanismo, arrivando ad un risultato che dà l’idea di un essere vivente addomesticato. Lo spettatore attirato tramite il meccanismo del gioco desidera partecipare e caricare la molla dell’oggetto, diventando inevitabilmente parte dell’opera, quasi un coautore.

 Coinvolgimento dello spettatore

Far partecipare gli spettatori alla creazione dell’opera d’arte era la strategia di Munari impiegata con lo scopo di rendere consapevole il pubblico delle problematiche estetiche moderne. Come molti intellettuali della sua generazione si accorgeva che la cultura visiva era molto lontana dall’accettazione delle persone comuni e appariva incomprensibile a tanti, spesso condizionati dai preconcetti, spesso veramente privi di qualsiasi istruzione. Benché Munari non fosse un sprovveduto, nel senso che non aveva delle illusioni sulle capacità umane come dimostrato dalla sua affermazione “l’arte è di tutti, ma non per tutti”, ha elaborato diverse procedure con lo scopo di catturare interesse dell’uomo e farlo entrare nel complesso mondo delle arti visive, stimolandone l’empatia e la percezione non oggettiva. Uno dei mezzi più conosciuti usati da Munari era la sua capacità di sfruttare il meccanismo del gioco, aspetto spesso usato dai suoi detrattori per sminuire le sue opere. In effetti, il gioco ha la caratteristica di non lasciare indifferente nessuno, agisce sul naturale infantilismo di tutti e sveglia la voglia di imparare in modo gioioso. Secondo molti adulti, però, il gioco non dovrebbe far parte di un’opera d’arte seria e questo pregiudizio segnò il destino di molti degli oggetti che Munari nella sua giovinezza regalava e che le persone dopo il primo entusiasmo buttavano via come si fa con i giocatoli usati.

Questi oggetti interattivi, dei quali i fruitori si impossessavano quasi in modo fisico, erano un mezzo efficace per non tagliare fuori lo spettatore dal mondo artistico. Nelle mostre che ho curato ho assistito a scene di vera esaltazione. Tuttavia nei suoi intenti si stava cristallizzando sempre più l’idea di un’arte totale, anche quella esplorata contemporaneamente nei propri opposti: oggettuale e virtuale. Mi ricordo ancora, con piacere, quella che Munari chiamava la scultura per tutti i sensi, che aveva da sempre nel suo studio. Era una sfera, colorata, profumata morbida ed elastica, inoltre produceva dei suoni.

Contemporaneamente a queste ricerche cominciava a elaborare il concetto di arte come spazio del quale lo spettatore inevitabilmente fa parte, entrando all’interno, lo condiziona, lo rende mutevole e sempre diverso. Come mi diceva spesso: “cerco di creare delle opere senza limiti spaziotemporali dove le immagini si formano e si disfano e non ha importanza che ci sia il corpo, ma che entrino nella memoria come un vissuto emozionale”.

Connessioni con le avanguardie europee

Munari conosceva molto bene l’avanguardia artistica internazionale di quegli anni tra l’altro, malgrado ciò che oggi generalmente si crede, era quasi più facile avere delle informazioni culturali allora rispetto ad oggi. Era particolarmente interessato al futurismo russo ed a quello del centro Europa e molte sue opere reagiscono agli argomenti proposti da artisti di altri paesi, di cui, innanzitutto, seguiva le soluzioni artistiche riguardanti problematiche di spazio, tempo e luce.

I primi disegni di Munari, figure di forme coniche, ci evocano le opere di Malevic o Depero. Specialmente osservando i suoi lavori iniziali si può ricostruire l’ampio spettro delle sue reazioni alle nuove idee e le reinterpretazioni delle nuove problematiche proposte dalle avanguardie. Era estremamente attento a quello che succedeva nel mondo dell’arte ed è proprio una sua caratteristica preponderante il fatto che molte sue opere sembrano in risposta al problema estetico posto da un altro autore. Munari, infatti, capiva l’arte come una specie di dialogo, una forma di comunicazione e questo non solo tra coetanei. Alcune macchine inutili sono una risposta al dilemma spaziale delle pitture di El Lisickij, i quadri astratti e le pitture come, per esempio, Anche la cornice, cominciano a cercare di creare un’ambiguità visiva stimolate dagli esperimenti di Hans Richter, Paul Klee o Mondrian. Sono evidenti diverse affinità tra i lavori suoi e quelli di Man Ray, riferimenti alle forme di Hans Arp e troviamo anche molte corrispondenze con le ricerche di Bauhaus. Spesso viene citato Vasilij Kandinskij, ma Munari prendeva sicuramente spunto da altri. Di Kandinskij criticava il concetto spaziale, diceva che le sue composizioni astratte erano delle nature morte irriconoscibili che galleggiavano nello spazio indefinito.

Munari nutre uno spirito dissacratorio nei confronti di un idea dell’arte moderno-classicista, dove si torna sempre ad un artefatto stereotipato, riconoscibile e ben identificabile, necessario per le esigenze commerciali. Spazia senza problemi dall’astrazione alla figura, dalla materia alla parola, dalla pittura all’oggetto. Le connessioni tra i suoi vari argomenti sono regolate dalla coerenza della sua filosofia estetica.  Arrivando a concepire arte come ambiente, anticipa tutta una espressività che si diffonderà dopo la seconda guerra mondiale. Questa sua libertà creativa sembra già proiettata verso il terzo millennio.

Esplorazione di varie forme di movimento

Una delle tematiche più importanti di Munari, è quella del movimento, e non è un caso che Frank Popper lo annoveri tra i precursori dell’arte cinetica[1].

Munari analizza il movimento in tutti i suoi aspetti visivi, distinguendo con precisione tra quello rappresentato, quello reale e quello illusorio. Esplora il movimento sia nell’aspetto virtuale, che nell’aspetto reale. Disegni e pitture di macchine, motociclette e figure in movimento, sono contemporanee ai suoi oggetti mobili. Spesso tenta di unificare il movimento accidentale con quello provocato. In ogni modo la sua rivelazione più considerevole è relativa al movimento illusorio, verificabile in tutti i suoi lavori riguardanti lo studio delle possibilità della luce polarizzata.

Nonostante abbia usato, soltanto marginalmente, il motore elettrico per alcuni dei suoi oggetti, il movimento più essenziale per lui rimane quello spontaneo e casuale, ad esempio uno spostamento dell’aria, lo scorrere dell’acqua o, addirittura, l’intervento dello spettatore. Questa scelta deriva dalla sua intima saggezza maturata già nel corso della sua giovinezza ed è chiaramente derivante dalla filosofia zen.

Espansione e ambiguità dello spazio

La ricerca estetica di Munari era finalizzata a far vedere l’invisibile, e ad esplorare le intersecazioni spaziali. Nelle sue opere troviamo frequentemente incroci a forma di X spesso anche assieme al numero 3 perché pongono le basi delle sue composizioni simboleggiando il suo rapporto con lo spazio. Non a caso una costante presenza nel suo lavoro è il retino. Lo troviamo come nei progetti grafici, per esempio nel libro di Marinetti Poema del latte, come negli oggetti e persino nelle trame di alcuni dipinti. La rete nei suoi lavori simboleggia la conformazione geometrica spaziotemporale, ma anche le diverse strutture della natura. Nel suo continuo oscillare tra organico e inorganico, figurativo e astratto, egli vuole individuare le connessioni che collegano ogni elemento dell’universo.

Pur concependo un modo nuovo di essere artista, Bruno Munari non nega mai il suo legame con l’estetica classica e dialoga con l’arte del passato utilizzando precisi rapporti armonici e matematici, chiamando in causa la riflessione sull’impossibilità di stabilire cosa determini il contesto e cosa l’opera. Munari rivaluta il personaggio cinquecentesco dell’artista scienziato in chiave moderna. Aveva una profonda conoscenza della geometria ed era al corrente delle più recenti teorie matematiche e delle novità tecnologiche che incorpora nella sua ricerca. Riusciva, però, a interpretare nei suoi lavori queste conoscenze in una forma poetica. Non per nulla spesso amava ripetere il detto giapponese che “bisogna conoscere le regole per poterle infrangere”.

Dall’inizio degli anni quaranta egli cerca di mettere a punto la Macchina Inutile a movimento di giostra dove utilizza un meccanismo di grammofono a molla che viene caricato a mano. La parte mobile gira come una giostra con un movimento decrescente, mentre in fondo ai raggi rotanti sono attaccati tre segmenti di forme geometriche piegate costruite in alluminio lucidato e specchiante. Oggi il materiale si è un po’ opacizzato, però è ancora possibile osservare nel movimento il riflesso dell’ambiente circostante . Vediamo lo spazio circostante esterno, destrutturato e mutabile moltiplicarsi nelle sfaccettature degli elementi geometrici. Munari non era mai soddisfatto del risultato e continuava a cambiare le parti rotanti finché nel 1953 giunge a considerarla compiuta. Di questo tentativo di inserire lo spazio esterno all’interno dell’opera esiste un altra testimonianza, ma solo fotografica, di una delle prime macchine inutili della quale faceva parte una sfera lucidata a specchio.

 Dalle proiezioni di ombre alle proiezioni dirette

In sintonia alle problematiche dell’epoca, Munari affronta anche il quesito della utilizzazione dell’energia elettrica nell’opera d’arte. Bisogna ricordarsi quanto sia considerevole ruolo dell’illuminazione non solo per le sue Macchine inutili, ma anche per gli altri oggetti appesi, che in quel modo riescono a rivelare dei disegni di ombre.

Alla fine degli anni quaranta, Munari realizza un’opera-ambiente. In una sala buia, possibilmente bianca e cubiforme, irraggia con luci elettrica puntiformi un retino metallico industriale piegato seguendo un schema matematico chiamandolo “Concavo-convesso”. L’oggetto, mosso soltanto dalle correnti d’aria, o dal tocco del visitatore, crea effetti ottici di moire non solo su se stesso, ma cosa per l’autore più essenziale, produce un disegno multiforme, dinamico e mutevole composto dalle ombre proiettate sulle pareti. Il retino quadrato bidimensionale si curva per diventare tridimensionale, e viene dilatato all’infinito tramite le ombre proiettate nell’area circostante, suggerendo l’idea della curvatura dello spazio. L’evidente relazione con i principi delle geometrie non euclidee non cancella l’atmosfera di mistero che impregna l’ambiente, creata dalla sapiente contrapposizione della forma e struttura, ombra e luce.

Munari presentò Concavo-convesso nel 1946 a Parigi ma, a dimostrazione di come l’opera non venne capita e considerata sta il fatto che gliela restituirono smontata e arrotolata, irrecuperabile, quindi. Successivamente nel 1947 Munari la rifece e ne produsse anche delle varianti rettangolari per poterli comporre, sperimentando ambienti più complessi.

Come era tipico per la sua ricerca, ha esplorato le possibilità espressive delle varie possibilità degli intrecci studiandole da diversi punti di vista. Ispirandosi alla problematica dei frattali e la natura, creava analogie tra le trame organiche e le strutture artificiali: per esempio tra le venature delle foglie essiccate e reti a nido d’ape metalliche. Oppure inseriva delle bacchette di bambù all’interno di reti morbide di nylon che, tendendosi grazie alla struttura rigida interna, formavano una sorta di nuvola.

 Dipingere con la luce

La luce è un elemento essenziale del concetto creativo, che non solo ha il contenuto simbolico tradizionale, ma è soprattutto un segno potente per le arti e per il mondo moderno.

Come primo esperimento, Munari ha cominciato a dipingere la luce come dimostrano alcuni quadri dei primi anni quaranta, ad esempio i Punti gialli del 1940 e del 1942, ma dopo una serie di dipinti, anche in questo caso, come nella sua elaborazione della tematica del movimento, non gli bastava più la sola rappresentanza dell’effetto luminoso e cominciò ad esplorare la possibilità di usare la luce direttamente.

Con le Proiezioni dirette Munari arriva ad utilizzare la luce elettrica come l’equivalente di un mezzo pittorico, partendo da un piccola opera racchiusa in un telaio di una diapositiva , poiettandola arriva a dipingere monumentali affreschi luminosi. Con quest’opera ottiene la possibilità di utilizzare il mezzo per ricostituire struttura ed intensità del colore sottolineando lo spazio e il volume delle forme luminose. Le proiezioni si manifestano in particolare nella percezione di grande estensione data dall’utilizzo spaziale. Esse esprimono uno dei pensieri più importanti di Munari, quello che lui citava riferendo che in giapponese il suo cognome significava “far dal niente”. In questo caso opere polimateriche realizzate tra i due vetrini per le proiezioni di diapositive venivano smaterializzate e ricostruite dalla luce in una dimensione imponente. Principio rilevante non è la sola trasposizione delle composizioni polimateriche, pitture o collage concreti, anche se in miniatura, nella realtà immateriale luminosa, ma l’intento di realizzare degli affreschi, che potevano riempire di colori degli saloni, dipingere con la luce una cupola o la facciata di un palazzo. Munari introduce successivamente il fattore cinetico usando vetrini bifocali, o proiettando diapositive in una sequenza ritmata, creando quasi un film spezzato, ma la soluzione forse per lui più soddisfacente la trova impiegando la luce polarizzata.

Nella sua esplorazione delle possibilità espressive della luce elettrica Munari si ispira indubbiamente ad esperienze precedenti. Essendo informato sulle varie possibilità dei dispositivi di luci, più che al Modulatore di spazio e luce di Moholy Nagy del 1930, per lui troppo meccanico, era attratto dai pianoforti, o organi, luminosi pensati da artisti come Alexander Scriabin (1872-1915) che aveva immaginato l’utilizzo di una “Tastiera a Luce”, pianoforte a colore per le prestazioni del suo Promethée. Costruito In seguito, dal futurista russo Vladimir Baranoff-Rossiné, (1888-1944) il pianoforte Optophonic generava suoni e proiettava immagini girevoli su una parete o sul soffitto dirigendo una luce brillante attraverso una serie di filtri, dischi di vetro dipinti e rotanti, specchi e lenti. La tastiera controllava la combinazione dei vari filtri e dischi. Le variazioni erano controllati da una cella fotoelettrica e l’intonazione da un unico oscillatore. Lo strumento produceva una continua diversità di suoni, accompagnati dalle proiezioni caleidoscopiche rotanti cui colori e ritmi strettamente integravano la musica. Il futurista ceco Zdeněk Pešánek (1896-1965) ed Erwin Schulhoff (1884- 1942) nel tentativo di spostarsi tra i regni musicali e visivi hanno creato delle sculture audio-visive. Con il suo Spectrophon-pianoforte, Zdeněk Pešánek ha realizzato pianoforti del colore e apparecchi per proiettare composizioni cinetiche di luci colorate su degli schermi, creando originali quadri luminosi astratti.

L’idea di usare il proiettore di diapositive per realizzare le sue installazioni luminose viene a Munari sviluppando l’idea di un altro futurista ceco, Jiří Kroha, che nei suoi progetti di architettura per le case destinate ai poveri proponeva di proiettare sui muri delle abitazioni delle diapositive di opere di artisti importanti, invece di appendere dei quadri.

A conferma delle connessioni con le idee e con le ricerche di questi artisti è l’attuazione nel 1979 di Uno spettacolo di luce, progettato da Munari per l’esecuzione della sinfonia Prometeo di Scriabin. Il contributo di Munari al tema e l’originalità dell’allestimento sono segnate dal fatto che non usi filtri colorati o altri accorgimenti, gli effetti di colore sono stabiliti e dipendono solo dalle differenti fonti luminose impiegate.

I colori della luce

Munari utilizzando la tecnologia di un potente proiettore per diapositive crea ambienti dipinti con la luce, effettive anticipazioni delle video-installazioni. Quest’idea diventa il punto di partenza per i suoi elementi formali che lo portano ad approfondire rapidamente l’uso dell’elettricità come sorgente luminosa che gli dava possibilità di smaterializzare l’opera e ricostruirla in una misura di pittura evanescente.

Negli anni cinquanta Munari gli esperimenti con la luce polarizzata lo portano a raggiungere l’obiettivo che si era prefisso. La scoperta delle proprietà dei filtri polaroid di scomporre la luce nei colori dello spettro gli apre una vasta possibilità di sperimentazioni. In questo caso le elaborazioni tra due vetrini per le proiezioni sono create con fogli trasparenti, piegati, qualche volta incisi, con un filtro polaroid come sfondo. Solo più tardi entrano nelle composizioni delle strutture geometriche nere. Munari proietta questi vetrini facendo ruotare un altro filtro polaroid davanti all’apparecchio. Progettò a questo scopo un dispositivo ruotante, ma quello che gli dava fastidio e quindi voleva evitare, era l’effetto caleidoscopio e per questo, spesso, faceva girare il filtro manualmente.

Luce e colore, luce elettrica usata in alternativa ai pigmenti dell’artista, ma anche come allusione al colore dello spettro scomposto dal filtro polaroid, ricorda una composizione quasi musicale e si riflette sul tempo. Le evoluzioni del movimento illusorio nelle Proiezioni a luce polarizzata servono per dare idea delle profondità dello spazio in continua trasformazione. Dobbiamo anche mettere in risalto il fatto che nelle proiezioni a luce polarizzata il movimento illusorio crea anche dei volumi e spazi virtuali che si percepiscono visualizzando quello che si potrebbe chiamare lo spazio parallelo.

In questo lavoro, Munari anticipa per lo meno di mezzo secolo le problematiche visive attuali.

Purtroppo non si sono conservate molte opere del periodo futurista di Munari. Innanzitutto perché a quel tempo non era nemmeno immaginabile poterle commercializzare e Munari, quando aveva deciso di aver risolto un problema estetico, non lo rifaceva più, perché non ne avvertiva bisogno ne la motivazione ma anche perché molti suoi lavori sono stati distrutti o si sono persi. Rimangono però i suoi lavori principali, anche se spesso soltanto in un esemplare, che comunque riescono illustrare bene il suo percorso creativo e le dinamiche del suo pensiero.

È interessante osservare come quello, che è stato una volta all’avanguardia venga successivamente occultato, eppure il passato anticipa il futuro, come fattore decisivo, essendo il presente sempre effimero. Quando vengono prodotte opere come quelle di Munari, in principio sono accolte con occhio diffidente e scettico spesso disprezzate o, addirittura, non considerate arte. Molte delle opinioni e delle scelte di Munari lo hanno posto in aperto conflitto con il sistema dell’arte ufficiale. Malgrado ciò è diventato un mito e un modello per molti artisti delle generazioni seguenti tanto che viene chiamato il Leonardo da Vinci del ventesimo secolo[2].

La vicenda di Bruno Munari è sempre un’occasione di approfondimento e di ispirazione.

 

         
 

Bruno Munari a Londra

La mostra Bruno Munari: My Futurist Past, che si terrà alla Estorick Collection of Modern Italian Art dal 19 Settembre al 23 Dicembre 2012, si pone l’obbiettivo di investigare l’attività di uno dei personaggi più complessi e creativi dell’arte italiana del XX secolo. L’esposizione analizza lo sviluppo dell’estetica di Munari, partendo dalla sua fase futurista iniziale (intorno al 1927), fino agli anni Cinquanta, quando, come uno dei fondatori del Movimento Arte Concreta, Munari divene un punto di riferimento per una nuova generazione di artisti italiani. Questa mostra illustra inoltre il modo in cui la ricerca di Munari, per certi versi pionieristica, ha esercitato un’influenza che si estende oltre la frontiera italiana.

La mostra, curata da Miroslava Hajek in collaborazione con Luca Zaffarano e il Massimo & Sonia Cirulli Archive, rivela la richezza della gioiosa, irreverente ed infinitamente creativa carriera di Munari. Il catalogo che accompagna la mostra include testi oltre che dei curatori, di Pierpaolo Antonello (Università di Cambridge) e Jeffrey Schnapp (Università di Harvard) insieme ad un testo di Alberto Munari (Università di Padova).

Bruno Munari nasce a Milano nel 1907, dove vive e lavora fino al 1998, anno della sua morte. Inizia la sua carriera nelle file del movimento futurista, di cui era considerato da F. T Marinetti uno degli esponenti più promettenti. Fin dall’inizio della sua carriera Munari si concentra nell’esplorare la possibilità di rappresentare la pittura nello spazio tridimensionale attraverso il flusso continuo di forme, rese mutabili incorporando una dimensione temporale, in accordo con le teorie professate da Giacomo Balla e Fortunato Depero nel loro manifesto ‘Ricostruzione Futurista dell’Universo’. Munari descrive l’inizio della sua carriera come il suo ‘passato futurista’, e le ambiziose idee di questo movimento hanno certamente influenzato la sua caleidoscopica ricerca visiva, portandolo a lavorare con una gamma di tecniche diverse, fra cui la pittura, il fotomontaggio, la scultura, le arti grafiche, il cinema, esplorando anche la teoria dell’arte. Le influenze sul suo lavoro sono state molteplici, fra cui l’estetica e sensibilità di movimenti come il Construttivismo, Dada e il Surrealismo.

Nel 1930 comincia a costruire le Macchine Inutili – i primi ‘mobile’ nella storia dell’arte italiana, il cui obbiettivo è liberare la pittura astratta dalla staticità del dipinto, utilizzando il principio di casualità introdotto dall’uso dell’aria come forza di movimento per le parti mobili sospese. Il paradosso del titolo rimanda ad una riflessione sull’utilità dell’inutile (l’arte) e sull’inutilità dell’utile (la macchina), operando un distinguo della propria poetica da una posizione futurista troppo legata al concetto di macchina roboante e di progresso acritico.

Nel 1946 espone a Parigi il primo ambiente spaziale denominato Concavo-convesso basato ancora una volta su un oggetto sospeso, realizzato con un rete metallica opportunamente curvata in modo da ricordare certe forme studiate dalla topologia, come il nastro di Moebius. Installato nella semi-oscurità, consente di generare, attraverso luci puntiformi, ombre e riverberi che rimandano ai moirè di certe pitture cinetiche degli anni Sessanta. Assieme all’ambiente spaziale nero con luci di Wood presentato da Lucio Fontana del 1949, il Concavo-convesso rappresenta una delle prime installazioni dell’arte moderna europea.

Durante gli anni Venti e Trenta, Munari ricopre la carica di art director della grafica di  importanti riviste come L’ala d’Italia, La rivista illustrata del Popolo d’Italia, Natura, La Lettura, L’almanacco letterario Bompiani, Tempo e Domus, e per progetti  pubblicitari di aziende come Campari, Snia Viscosa, Pirelli, Olivetti e Agip.

Verso la fine degli anni Quaranta, insieme con  Gianni Monnet, Gillo Dorfles e altri, Munari fonda il M.A.C (Movimento Arte Concreta) a Milano. Questo movimento agisce da catalizzatore per l’astrazione Italiana, dando origine a ‘una sintesi delle arti’, in grado di offrire alla pittura tradizionale nuovi strumenti di comunicazione ed inoltre di dimostrare la possibilità di una convergenza, anche in un contesto industriale, fra arte e tecnica, creatività e funzionalità.

Durante gli anni Cinquanta, Munari crea la serie ‘Negativo-positivo’, composizioni astratte in cui il dualismo classico fra la figura e lo sfondo svanisce a causa di una percezione visiva resa instabile da una mancanza di un margine o bordo nella composizione. L’artista continua poi ad esplorare la nozione di dipingere con la luce, arrivando al processo di smaterializzare l’arte attraverso l’uso di proiezioni di diapositive contenenti composizioni intitolate Proiezioni Dirette. L’artista crea composizioni con materiali poveri o anche con frammenti di vetro colorato e plastica trasparente, elementi organici e fili di cotone, fermati fra due superfici di vetro. Le composizioni così create venivano proiettate, non solo al chiuso, ma anche all’esterno, sulle facciate di edifici, dandogli così una sensazione di monumentalità.

Nel 1951 crea la serie di Macchine Aritmiche, i cui movimenti irregolari sono generati da meccanismi  a molle usurate. Nel 1953 scopre, per la prima volta, come scomporre lo spettro di luce attraverso una lente Polaroid in un continuo dato dai movimenti  rotanti di un filtro polarizzante applicato ad un proiettore per diapositive. Le Proiezioni Polarizzate nascono come continuazione logica e complemento teorico alle ricerche che hanno portato alla creazione delle sue Proiezioni Dirette.

Questa mostra prende spunto da queste ricerche pittoriche e teoretiche, e si concentra su due aspetti: uno artistico, in cui è analizzata la iniziale ma conflittuale relazione con il Futurismo; e uno che investiga il lavoro di grafica creato da Munari per le riviste più prestigiose dell’epoca, un lavoro che ha avuto un ruolo importante di modernizzazione della cultura italiana.  Sarà inoltre presentata, per la prima volta nel Regno Unito, l’installazione di Concavo-convesso. L’esibizione sarà anche accompagnata da eventi all’aperto, con una proiezione polarizzata sulla facciata del museo.

 

 

Miroslava Hajek nasce a Brno (Rep. Ceca) dove studia Storia dell’Arte. Nel 1969 mentre si trova in Italia, invitata a partecipare ad una manifestazione culturale internazionale, viene processata e condannata a seguito della repressione della Primavera di Praga. Quindi rimane in Italia e dal 1970 al 2000 fonda e dirige a Novara la galleria d’arte Studio UXA. Durante questo periodo collabora in qualità di storica d’arte con Bruno Munari alla creazione di una raccolta di opere d’arte in grado di descrivere l’intero percorso creativo dell’artista.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1]           Frank Popper, L’arte cinetica, 1970, Giulio Einaudi Editore, pagg. 133, 151, 185, 216

[2]           Pontus Hulten, Una magia più forte della morte, 1987, Bompiani, pag.17

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