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Ascanio Celestini, la pecora nera

Scrittore, regista, sceneggiatore… Ascanio Celestini è un uomo dai molti mesteri, ma lui ama definirsi semplicemente come: “Una persona che racconta storie”. In occasione dell’uscita in lingua ceca del suo libro Pecora Nera, Celestini ha partecipato ad un evento organizzato dal Comitato Dante Alighieri di Praga e l’Università Karlova, nel corso del quale ha parlato davanti ad un nutrito pubblico di lettori e curiosi, dei suoi lavori, dell’importanza dell’oralità e della predominanza delle immagini sulle parole nel suo pluriverso artistico; ma ha anche affrontato temi di grande attualità. Cafè Boheme lo ha incontrato e gli ha fatto qualche domanda.

Ascanio Celestini: attore teatrale, regista, scrittore, cantante, drammaturgo… Come si definisce Ascanio Celestini?

Io raccolgo storie e racconto storie, per me non c’è una grande differenza, se non un fatto tecnico, tra la scrittura teatrale, la scrittura, la musica, il cinema, il teatro… Io quando scrivo penso ad una storia, penso ad un luogo e penso a dei personaggi; quello che succede dopo tecnicamente è una questione secondaria.

So che sei un estimatore di un grande scrittore ceco che è B. Hrabal. Cosa ti piace di Hrabal ; cosa ti ha colpito nelle sue opere?

Diverse cose, lo avevo letto la prima volta al liceo e avevo letto soltanto Una solitudine troppo rumorosa che in Italia era stato pubblicato da Einaudi che è anche il mio editore e di molti altri scrittori, ovviamente. In quel periodo prendevo molti libri alla Einaudi e presi anche questo librettino che aveva il merito di essere anche molto breve. L’ho letto, mi è piaciuto molto però poi non ne ho letti altri perché non ero interessato a leggere più libri di uno stesso scrittore. Invece negli ultimi anni leggo più libri dello stesso autore, ad esempio Philip Roth, e se invece smetto di leggerli è perché mi sono “incagliato”. A distanza di tanti anni ho riletto Una solitudine troppo rumorosa di Hrabal, poi ho comprato Treni strettamente sorvegliati, La tonsura e Ho servito il Re d’Inghilterra. Una cosa che mi colpisce in particolare in Ho servito il Re d’Inghilterra è che tanto quanto in Una solitudine troppo rumorosa c’è un meccanismo molto semplice in cui entri subito e sai che non ti allontanerai da quel meccanismo, poi invece in Ho servito il Re d’Inghilterra c’è un crescendo; è come se in lui tutte queste esperienze diventassero materia letteraria; uno come Hanta è uno che già sta alla fine della sua vita, mentre lì tu leggi tutta la vita del personaggio e questo fa di questo libro un romanzo di formazione, un libro tradizionale, però con una certa facilità e leggerezza.

Conoscevi già Praga o ci sei per la prima volta?

No, è la prima volta; ho provato a venirci nel 1990 con l’interrail ma serviva il passaporto.

Parliamo delle tue opere; il tema del disagio dell’individuo di fronte all’ “istituzione” in tutte le sue forme: che sia il manicomio, la fabbrica ecc. è un po’ il filo conduttore di molti dei tuoi lavori artistici tra cui: “La pecora nera. Elogio funebre del manicomio elettrico” e “Lotta di Classe”. Come mai hai deciso di affrontare in profondità questo tema?

Più che il disagio è la condizione di subalternità che mi interessa. L’istituzione più è violenta e più rassomiglia alla condizione che viviamo quotidianamente. Quando tu lavori in un supermercato e fai la cassiera, tutto sommato non sembra che tu faccia una vita davvero infame; sì, un po’ ripetitiva però… Però se poi parli con la cassiera, lei ti dice che la cassa è il reparto “confino” dove non puoi neanche andare al gabinetto e quindi diventa il luogo dove viene confinato il lavoratore . L’unica persona che assomiglia ad un essere umano al supermercato è la cassiera perché tutti arrivano da lei. E poi se c’è fila è colpa della cassiera che è lenta… per cui nel ruolo della cassiera trovi un ruolo di subalternità rispetto a qualcuno o a qualcosa. Una volta  ho letto un libro “minore” di un italiano che si chiama Dante Corneli, un italiano che è rimasto 27 anni in un gulag in Unione Sovietica. La cosa che colpiva ad un certo punto è che lui, pur non denunciando nessuna violenza esplicita, ritrovava nel gulag molte delle persone che aveva trovato nel Partito, nella scuola… e ad un certo punto ti dava l’immagine di un socialismo reale, di un’Unione Sovietica come di una macchina di una violenza che era più forte dei violenti stessi. Diceva uno scrittore italiano che ha vissuto più di trent’anni in Norvegia fabbricando chiodi in una fabbrica; si chiamava Luigi Di Ruscio: “La legge del formicaio sovrasta ogni formica”. E questo è deresponsabilizzante. Lo stesso Stalin potrebbe dire: “Io sono stato consigliato male, non sapevo che in quella cella succedesse quella cosa…” poi c’è quello che invece esegue solo gli ordini, c’è quello che sta nel mezzo e non sa cosa succede sopra e cosa succede sotto…

La pecora nera è uno spettacolo che nasce attraverso una ricerca sul campo con interviste, raccolte di memorie, testimonianze dal mondo dei manicomi. Mi pare di capire che tu lasci intendere che il manicomio sia un sintomo ma non certo il problema da risolvere benché sia un’istituzione da eliminare. Quale dovrebbe essere secondo te l’alternativa?

L’alternativa al manicomio c’è già; in Italia c’è. L’individuo è una persona complicata, complessa; noi siamo fatti di tante esperienze e di tante possibilità di fare esperienze. Nel momento in cui si prende un individuo, uno che ha commesso un reato o uno studente che va a una interrogazione e gli dici: “tu questa cosa non la sai, tu qui non ci arrivi” e lo releghi ad un sintomo o ad un atto compiuto, se si tratta di una persona che sta in prigione, tu riduci la complessità di un individuo ad un elemento soltanto. Questo è un atto criminale. Qual è dunque l’alternativa? Quella di non ridurre l’individuo ad un suo comportamento. Per quanto riguarda i manicomi in Italia ci siamo arrivati, anche se è una cosa che funziona male come tante cose in Italia, però ce li abbiamo. I Servizi Territoriali fanno questo: cercano di lasciare l’individuo a contatto con il suo ambiente anche con le sue contraddizioni. Una volta uno psicologo mi raccontava di un ragazzo che non voleva uscire di casa perché sentiva delle voci; lo psicologo diceva che in un centro avrebbero potuto certamente aiutarlo di più, ma a casa stava bene e lui non voleva uscire perché non sopportava il dubbio di sapere se una voce fosse reale o esistesse solo nella sua testa. Cos’è la malattia? Il disagio che noi proviamo per il traffico, per il rumore, le nostre paure… sono malattie? No, sono condizioni difficili, ma non sono malattie. Allora dovremmo iniziare a pensare che i comportamenti, anche quelli violenti, sono comportamenti e non tutti reati. Nel nostro Paese vengono considerati reati comportamenti che in altri non lo sono o in altri tempi erano considerati solo sbagliati, come la prostituzione e la tossicodipendenza. Se io rubo per comprarmi la droga è un reato, ma perché rubo, non perché mi drogo. Bisogna cominciare a fare un po’ di pulizia. Alcune cose moralmente sono cose che consideriamo sbagliate però non sono reati. Sentire le voci è un disagio, ma non è una malattia. Bisogna complicare le cose che non sono così tanto semplici.

Nella prima legge fatta in Italia agli inizi del ‘900 era chiarissimo chi doveva finire in manicomio e chi no. Chi era pericoloso per sé, per gli altri e per pubblico scandalo finiva in manicomio. Era chiaro chi era il matto e chi non lo era. Nella legge del’78 invece non si capisce più niente.

Nel libro “Lotta di classe”  invece parli della condizione dei lavoratori precari; della rabbia e della delusione di una generazione… Negli ultimi mesi in Italia si ritorna a parlare di Articolo 18 mentre crescono povertà e disoccupazione giovanile. Quali sono secondo te le misure che si dovrebbero adottare?

Io non sono un economista, ma per quanto riguarda l’Art. 18, legge n. 300 del 1970 sullo Statuto dei Lavoratori; l’Art.18 fu molto dibattuto in quegli anni perché veniva considerata una concessione ai padroni che gli permetteva di licenziare nelle aziende piccole con meno di 15 lavoratori, per cui immagina tu come si è rovesciata oggi la situazione che invece viene vista come una tutela dei lavoratori nelle grandi aziende con più di 15 lavoratori. Oggi il discorso si è rovesciato e si è perso anche un po’ il contesto di questa legge. Questa è la prima cosa. La seconda cosa è che uno dei grandi problemi dei paesi occidentali è che stiamo cercando di frenare una macchina in discesa che non ha più i freni mettendo i piedi fuori dallo sportello. Non dobbiamo crescere, non dobbiamo accelerare; la velocità deve diminuire; noi dobbiamo rovesciarla questa cosa. Bisogna dire: nel mio Paese è vietato far lavorare i bambini? Bene, allora deve essere vietato anche vendere prodotti fatti in paesi dove i bambini possono lavorare. La delocalizzazione è un crimine. Se io sono un’azienda italiana e delocalizzo in Repubblica Ceca perché produrre mi costa meno, poi in Repubblica Ceca mi inizia a costare di più e allora devo andare in un paese che ha uno sviluppo più lento, allora vado in Cina, vado in una zona della Cina “sfigata”… Questa si chiama colonizzazione. A tutte queste cose, un paese civile dovrebbe dire: “facciamo un passo indietro”; facciamolo non da un giorno all’altro altrimenti mettiamo fuori legge tutte le aziende, ma facciamo un passo indietro. Solo che un banchiere non la farà mai questa cosa. Si può fare, come una guerra tra bande, questo è possibile, allora si comincino a creare delle “isole” fatte da persone, da territori dove questo piano piano non è più possibile, dove quei prodotti non si trovano più. Allora tu mi potrai dire: “Va bene ma non arginerai mai lo strapotere della Nike”, sì, va bene, ma intanto ci saranno cento persone in meno che compreranno quelle scarpe e cento persone in più che le scarpe le compreranno sotto casa. Già alcune multinazionali cominciano a darsi dei regolamenti, per esempio iniziano in alcuni posti a non far lavorare i bambini, però stai sempre in Cina, dove un adulto è pagato dieci volte meno… E’ complicato lo so, però la situazione già è degenerata meno in questi ultimi anni.

La satira, la scrittura, l’arte in generale come lente d’ingrandimento sulle contraddizioni e i problemi della società, può  esercitare una funzione di stimolo delle coscienze per un cambiamento, oppure può solo fermarsi ad una denuncia autoreferenziale dei problemi?

Io credo che ci siano due cose. Uno è un problema linguistico. Il giornalista, il politico, dovrebbero parlare una lingua non mediata. Se dicono una cosa questa cosa deve essere il più possibile significarne una. Poi è chiaro che nessuno può costruire una proposizione che significa solo una cosa; pure Wittgenstein ci ha provato, però poi ha cambiato idea. Però dovrebbe indirizzarsi verso quell’obiettivo. Invece l’artista, il letterato, lo scrittore dovrebbe pesantemente scrivere in maniera mediata e quindi usare anche un linguaggio violento. Lo scrittore come il farmacista, come il politico dovrebbero prendere coscienza che sono persone che vivono in una “polis” dove tutti interagiscono con tutti.

Tu sei spesso in prima linea quando si tratta di contestare il nucleare, la TAV e in generale la violenza del potere, nel senso più ampio e, permettimi, “pasoliniano” del termine. Perché la gran parte degli italiani non accenna alcun tipo di reazione di fronte a questa violenza che subisce?

Ma questa reazione un po’ c’è; certo parlando al mercato trovi quello che ti dice che si va sempre peggio, e tu gli dici che le cose potrebbero andare ancora peggio. E invece fortunatamente c’è un sacco di gente che fa un lavoro importante… E’ come quando dicevano a Mario Luzi che la poesia per la maggior parte delle persone non era così importante e lui rispondeva che sarebbe peggio se non lo fosse per qualcuno. Non è per vedere il bicchiere mezzo pieno, ma fortunatamente ci sono molte persone che fanno un lavoro e lo fanno in maniera seria. Per esempio i “No TAV” sono su un territorio vasto in cui le persone si sono impegnate direttamente, che magari non sarebbero d’accordo tra loro politicamente ma che su una questione concreta sono invece d’accordo.

Citi spesso Carlo Pisacane; cosa significa per te questo personaggio storico e cosa potrebbe insegnare alla generazione di oggi?

Ma perché Pisacane è un personaggio strano; non è che sia attuale, anche se delle cose che ha scritto sono interessanti. Viene sempre spontaneo vedere l’esperienza di Pisacane come un’esperienza fallimentare; vedere questi quattro matti che  partono in venticinque, liberano trecento detenuti e fanno questa esperienza di rivoluzione fallita totalmente; vengono massacrati… Però intanto tre anni dopo Garibaldi torna lì, va nel Sud, quindi l’idea di portare la scintilla lì dove era accesa la miccia non era proprio una stupidata. Rispetto allo stesso Mazzini, incomincia a leggere una differenza tra chi ha i soldi e chi non ce li ha, e lo dice, scrive che non è una vera democrazia quella dove ci sono alcuni tanto ricchi da poter comprare altrui e persone tanto povere da doversi vendere. Dice che il rivoluzionario non è quello che guida il popolo ma colui che lo interpreta. Poi Pisacane è anche quello che sa che molto probabilmente sarà sconfitto, e infatti prima di partire scrive un testamento.

Chi apprezzi nel panorama letterario italiano di oggi?

Ci sono tante cose interessanti, io ero rimasto molto colpito dal secondo e dal terzo libro di Andrea Bajani, il primo non l’ho letto, secondo me l’ha letto solo lui perché è uscito con un editore che è fallito lo stesso giorno in cui è uscito il libro e non è arrivato neanche in libreria. Poi, per esempio Cordiali saluti che è il primo conosciuto che secondo me è un percorso molto interessante. Mi era piaciuto anche il primo libro di Aldo Nove, Woobinda, poi Superwoobinda… Quella scrittura là mi sembra interessante e mi sembra interessante anche il percorso che sta facendo  Tiziano Scarpa; io non l’ho letto tutto però mi piace il fatto che ha tentato di passare da una parte all’altra… Groppi d’amore nella scuraglia è uno dei libri più strani che ha scritto.

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