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Alberto Moravia, o L’uomo come fine

Non si può eludere una semplice constatazione che probabilmente dipende da casi fortuiti e dalla vita stessa, dai casi della vita, dalle contingenze storico-politiche, dal fatto incontrovertibile che Alberto Moravia, nato il nel 1907 e morto nel 1990, ha avuto modo di assistere a due conflitti mondiali, di subire il fascismo, di vedere nascere l’Europa unita e di partecipare come deputato ai lavori del parlamento europeo, di conoscere e intervenire attivamente alle più straordinarie trasformazioni che si sono verificate nel XX secolo, e di averle osservate con un’intelligenza cartesiana e un distacco stoico; ma al contempo che il romanziere de Gli indifferenti ha affrontato ogni esperienza della sua esistenza con una forza e una decisione saldissime e con un carattere di ‘rivoltato’, per utilizzare un aggettivo che è termine chiave per la comprensione dell’intera opera del più prolifico narratore italiano.

L’attività letteraria e intellettuale si estende dunque dagli anni Venti del Novecento fino alla fine del XX secolo: fra la scrittura romanzesca e di racconti si insinua sempre e immancabilmente la scrittura saggistica, d’opinione, autobiografica attraverso interviste, articoli di viaggio e giornalistici; non viene meno nemmeno la scrittura d’impegno civile. Numerosi sarebbero i volumi nei quali si potrebbe raccogliere la mole degli scritti non dichiaratamente letterari di Moravia[1], volumi che potrebbero evidentemente testimoniare di un modo tutto peculiare di affrontare problematiche da un punto di vista che potremmo definire, per l’originalità e la pressoché unitaria e priva di qualsivoglia forma di retorica asciuttezza e intelligenza, moraviano.
Quando ha inizio la riflessione intellettuale di Moravia? Con quali caratteristiche?
Si potrebbe, dopo le note affermazioni nel volume autobiografico Vita di Moravia, e la pubblicazione delle Lettere ad Amelia Rosselli, forse affermare che una certa disposizione era connaturata e caratteriale per il giovanissimo Alberto: «Non avevo una grande partecipazione alla vita di famiglia. Le ristrettezze dell’ambiente borghese mi mettevano a disagio e mi umiliavano», perché «ero chiuso nei miei sogni letterari». Riconosce sinceramente: «non ho mai avuto dei drammi con mio padre e mia madre. Soffrivo di solitudine. In sostanza ho avuto dei genitori normali. Ero io l’anormale».[2] In questa riflessione-affermazione Moravia condensa una condizione esistenziale distintiva di un proprio sentire e sentirsi che, senza quel nuovo documento così speciale e validante costituito dalle Lettere alla zia, sarebbe apparso come la proustiana senile ricerca del tempo perduto, e invece soltanto ricostruzione fedele della giovinezza e dell’adolescenza. L’anormalità di Alberto Moravia consiste nella sua sensibilità, nell’immaginazione, amplificate dalle letture che fin da giovanissimo compie, nel sentirsi compresso da regole rigide e comportamenti di cui non comprende il significato.

Quel bambino che ripeteva je m’ennui, così come aveva narrato a Elkann, è il medesimo che scrive alla zia Amelia Rosselli: «Mi sono molto annoiato a Viareggio, stando tutto il giorno inchiodato sopra una sedia o a leggere o a scrivere un libro di mia invenzione con miei disegni»,[3] così a 13 anni (28 dicembre 1920). La noia e il dolore dell’ingessatura lo spingono a studiare molto e a leggere moltissimo. E proprio a quella medesima zia, pochi anni dopo, sempre rammaricandosi del dolore e della noia, dal sanatorio Codivilla di Cortina, dove è ricoverato per la coxite ossea all’anca, scrive riferendo la propria opinione sul delitto Matteotti: «in questi giorni i giornali assumono una certa importanza per l’affare Matteotti (10 giugno 1924, deputato Giacomo Matteotti, socialista, fu rapito e ucciso. Il suo corpo fu trovato il 1 luglio) […]. A me pare che questo delitto non sia che la lacerazione occasionale di un velo che copriva certi affari politico-finanziari di molti fascisti. È una vergogna senza dubbio ma per ora nulla è chiaro; ben altrimenti vergognoso e demolitore sarà il processo, perché c’è gente che ha molto da parlare». Ha soltanto 16 anni e conclude la sua riflessione affermando che bisogna sempre considerare «non le modalità del crimine ma ciò che denuda».[4] E certamente non si può tacere nella formazione intellettuale e umana del giovane Alberto l’influsso di due differenti tendenze politiche e ideologiche respirate in famiglia: Alberto Moravia nasce il 28 novembre 1907[5], in una Roma perfettamente dannunziana e pirandellianamente decadente, secondo figlio, dopo la sorella Adriana (25 dicembre 1905), pittrice, e dopo di lui, la sorella Elena (29 marzo 1909), a distanza di cinque anni viene alla luce Gastone (10 agosto 1914), il padre è un affermato ingegnere-architetto[6] e la madre una donna di famiglia con desideri mondani.

Carlo Pincherle Moravia, figlio di Giacomo Pincherle (Moravia) e Elena Capon, entrambi ebrei, è veneziano, nato nel 1863 e cresciuto in una famiglia numerosa, di cinque figli, e oltre lui, ci sono: Elena, Gabriele, Anna e Amelia; ha studiato a Padova, e si trasferisce a Roma per lavoro dal 1890. La zia Amelia, scrittrice di narrativa e teatro, intellettuale colta e politicamente antifascista, fu figura determinante nella vita del bambino Alberto Moravia: sposa in sinagoga a Roma Giuseppe Emanuele Rosselli, da cui ha tre figli, Aldo, Carlo, Nello, e va a vivere a Firenze. Aldo muore nel primo conflitto mondiale, Carlo e Nello vengono uccisi a Parigi perché appartenenti alla resistenza antifascista, il 9 giugno 1937. Il cognome Moravia entra nella famiglia Pincherle quando uno zio materno di Giacomo lo accoglie e se ne prende cura, dopo la morte in giovane età del padre. Carlo Pincherle Moravia conosce Igina, detta Gina, a Roma, dove svolge l’attività di dattilografa, e la sposa civilmente nel 1903. I genitori della donna sono marchigiani di origini dalmate, Enrico e Adelaide De Marsanich hanno avuto otto figli, fra cui il noto Augusto De Marsanich (1893) deputato fascista, sottosegretario alle comunicazioni nel governo Mussolini, poi fra i fondatori e segretario del Movimento Sociale Italiano. «Il ramo paterno era per tradizione letterariamente e politicamente impegnato a sinistra. E il ramo materno a destra»:[7] Alberto Moravia si colloca al di sopra delle determinazioni politiche.

E riflettendo su un articolo di Filippo Turati inerente a Matteotti nuovamente scrive alla zia: «Carlo […] mi ha raccomandato un articolo di Turati intitolato “l’Eroe”. Questa concezione eroica dell’ucciso Matteotti non è né logica, gli Eroi sono altra cosa, né veritiera. Mi sembra più umano dire il “povero Matteotti” perché gli fu tolta la vita che avrebbe assunto un valore eroico soltanto per un’offerta di se stessa. È probabile poi che la sua opera da vivo avrebbe dato assai più vantaggi al partito, se è vero il valore che gli si attribuiva, che non la sua morte. Mi sembra che qualunque morte come questa ha delle influenze riflesse in cui è difficile separare l’azione degli uomini che vi trovano loro interessi e la giusta logica ma limitata conseguenza d’un tal fatto. In tutti i casi non sono davvero fascista».[8] Senza entrare nello specifico storico e politico dell’assassinio Matteotti, tuttavia quel che immediatamente induce a meditazione sono le parole del giovanissimo Alberto, che il 7 luglio 1924 afferma lucidamente e realisticamente, senza infingimenti retorici o ideologici, che una vita è una vita, e per parlare d’eroismo è necessario che il sacrificio della vita sia volontario, inoltre chiarisce sorprendentemente che Matteotti avrebbe potuto far più da vivo che da morto, con una fatale constatazione strategicamente politica. E in un’altra lettera (19 luglio 1925) afferma decisamente e con piena consapevolezza: «il governo fascista è un governo che va combattuto fino in fondo; è rattristante per le sorti dell’Italia ma bisogna constatare che siamo in pieno regime paternalista, oscurantista, quietista; non ho mai letto nulla di più grottesco e idiota che i due discorsi di Farinacci e Mussolini contro l’intellettualismo e la cultura universitaria, evidentemente quei due valentuomini vogliono ridurre il popolo italiano nello stato in cui era quello russo prima della guerra, sotto lo stupido e feroce Zar Nicola; e ogni giorno di più essi si avviano verso la rovina finale che è inevitabile; speriamo almeno che avvenga presto perché il prolungarsi del regime significherà, all’ora della caduta, una reazione tanto più forte quanto più lunga sarà stata la repressione; e l’esperienza storica dimostra che qualunque reazione è all’equilibrio della vita del Paese».[9] Profeticamente si esprime, quasi venti anni prima della caduta del regime fascista, questo giovane Alberto Moravia e con piena sapienza degli eventi, delle dinamiche storiche, che in particolare si stanno svolgendo in Italia.

Dunque, oltre che nella scrittura romanzesca, di cui non ci si occuperà in questa sede, la speculazione intellettuale di Alberto Moravia, si dissemina in una serie di testi differenti, che vanno dagli anni Trenta del Novecento fino alla morte del romanziere romano. Se dovessimo comprendere questi testi in un unico volume, e sarebbe di molte centinaia di pagine, potremmo intitolarlo come egli scelse di intitolare la propria raccolta di saggi: L’uomo come fine. Nel 2007, per celebrare i cento anni dalla nascita di Alberto Moravia organizzai una giornata di studi a Sabaudia, città che Moravia amò e frequentò dagli anni Settanta fino a pochi giorni prima di morire, perché avrei voluto con quel titolo comprendere in una sapiente sintesi il pensiero e la scrittura di un maestro, che non volle insegnare mai alcunché ad alcuno, ma che fu, suo malgrado, riferimento per molti scrittori, intellettuali, letterati delle generazioni successive. In quell’aforisma breve, a mio avviso, coagulava completamente la poetica, l’estetica, la dimensione di azione politica (non da politico) di Alberto Moravia.
L’uomo come fine non è una facile e felice formula o uno slogan, ma è principio etico e più ampiamente filosofico di un neoumanesimo integrale e fondato su ragioni che poggiano su una struttura politico-ideologica soltanto per superarla, e slanciarsi verso sintesi concettuali guidate e sostenute da una illuministica e fiduciosa, quanto utopica, adesione alla ragione. E sempre nel 2007, il prof. Lucio Villari, storico e amico personale di Moravia, nel corso di un importante incontro, volto a commemorare la nascita del romanziere, definiva propriamente il pensiero politico e filosofico di Moravia ponendolo all’intersezione fra Umanesimo e ragione.

Se il volume L’uomo come fine e altri saggi viene pubblicato nel 1963, i saggi in esso contenuti spaziano fra la seconda metà degli anni Quaranta giungendo fino al all’inizio degli anni Sessanta, e attraversano la riflessione di Moravia sul rapporto fra letteratura e politica. Questo titolo potrebbe essere comprensivo di tutta la lunga stagione saggistica di Moravia, sia di quella già raccolta in volume, sia di quella, invece, dispersa e disseminata in riviste, quotidiani, introduzioni a volumi, partecipazioni a raccolte miscellanee: se c’è un dato che ricorre come cifra stilistica e concettuale di Moravia è la sostanziale coerenza, manifestata tanto nei personaggi dei suoi romanzi, quanto nel suo pensiero variamente e differentemente espresso. Si pensi, solo per citare alcuni scritti noti, al volume del 1987 Diario Europeo, o all’Inverno nucleare (1982), ancora a Impegno controvoglia (Saggi, articoli, interviste: trentacinque anni di scritti politici, con saggi dal 1944 al 1978) del 1980, alla raccolta di articoli La rivolta culturale in Cina (1967), o a Un mese in Urss (1958), e infine alla cura fin dalla nascita del trimestrale fondato nel 1953 con Alberto Carocci Nuovi argomenti.
L’Uomo come fine viene così pubblicato per dimostrare che ogni essere umano in primo luogo deve essere considerato un uomo. E l’uomo in quanto tale è fine. Non può in alcun modo divenire mezzo o strumento per altri fini. L’avvio è da Machiavelli che aveva elaborato il noto motto «il fine giustifica i mezzi». L’argomentazione sui fini e sui mezzi si svolge lungo 18 paragrafi che compongono il saggio: esempi storici e filosofici, di lato realismo politico, e sull’uso vario della ragione umana e dell’irrazionalità di numerose scelte degli uomini vengono offerti da Moravia, che sveste i panni del romanziere per rivestirsi da philosophe del Secolo dei Lumi. Egli dimostra che l’uomo da quando è entrato nella modernità è divenuto soltanto un mezzo, perdendo progressivamente il proprio ruolo di fine. Lo Stato, la nazione o «i governanti o la classe dirigente» sono i primi a strumentalizzare l’essere umano per differenti ragioni che riguardano la società, il benessere, la politica. Nulla è tralasciato nel mondo moderno per proteggere e rafforzare falsamente la dignità umana ed elevare l’uomo ripetono i governanti per persuadere l’uomo che nel frattempo viene considerato mezzo. Soltanto quando l’uomo può pensare e riflettere, grazie ad una crisi o a un momento di turbamento allora comprende che: «il lavoro è servitù, che onori, compensi e incoraggiamenti sono inganni, illusioni e sonniferi, che la cultura è lusinga per sedurlo, fracasso per non farlo pensare, propaganda per convincerlo, e la religione un chiodo di più per tenerlo ben fermo sulla sua croce». (p.118, L’uomo come fine).

È l’inganno che Moravia vuole svelare e rivelare all’uomo. In secondo luogo, incontrovertibile è l’invito-costrizione per gli esseri umani ad agire continuamente indotti dallo Stato a lavorare, costruire, produrre senza sosta, dovendo declinare alla morale, alla cultura, e alla formazione spirituale. Dalla contemplazione si abdica a favore dell’azione coatta. Infine, Moravia interrompe pirandellianamente l’apparenza per rendere manifesta la manipolazione della civiltà produttivista e alienante: la misura umana si consuma in una disumanizzazione progressiva, favorita dalla perdita di riferimento nella stato, nella città, nel luogo di lavoro, tutto diviene più grande e inafferrabile: «La conseguenza prima di questa piccolezza dell’uomo moderno è la sua impotenza a conoscere in maniera soddisfacente i suoi rapporti con il mondo al quale appartiene e in ultima analisi a conoscere se stesso. D’altra parte la vastità degli organismi ai quali appartiene ribadisce nell’uomo moderno la sensazione della propria natura di mezzo e il senso di impossibilità di porsi come fine» (p. 148, L’uomo come fine).
La conclusione cui giunge Moravia è senza cedimenti e compromessi, ma chiara e valida, ancor più oggi: se l’uomo non deve essere mezzo come un animale o una pianta, se non può non essere che fine, allora: «E’ urgente […] che il mondo torni ad essere fatto alla misura dell’uomo. Soltanto in un mondo fatto secondo la sua misura, l’uomo potrà ritrovare, attraverso la contemplazione, un’idea adeguata di se stesso e riproporsi se stesso come fine e cessare di essere mezzo. Un mondo siffatto presuppone certamente la distruzione e la scomparsa degli Stati e delle Nazioni e conseguentemente delle immense città in cui Stati e Nazioni riuniscono i loro organi direttivi. Un mondo moderno fatto secondo la misura dell’uomo dovrà da un lato esser fatto secondo la sua fisica capacità di muoversi, di vedere, di abbracciare e di intendere; dall’altro secondo la sua misura intellettuale e morale, ossia la sua capacità di entrare in rapporti con le idee e i valori morali» (p. 149).

In sintesi quel che sta più a cuore al raisonneur è la presa di coscienza con conseguente assunzione responsabilità da parte dell’uomo, senza paternalismi e soprattutto senza affidarsi ad altri che alla propria dimensione umana.
È un pensiero altamente utopico, ma evidentemente non proposto come tale, ma come plausibile e logicamente applicabile e realizzabile nel mondo contemporaneo, confidando nella bontà e quasi ovvietà della considerazione che l’uomo non possa vivere se non in un mondo a misura d’uomo, e che tuttavia, nonostante la palese tautologia, o forse proprio per la palese tautologia, tutto sembra proseguire esattamente nel verso opposto. Il principio da cui Moravia avvia la propria inconfutabile verità riposa sull’esperienza della malattia, della guerra, della distruzione, soprattutto sull’esperienza del dolore individuale che l’uomo, ciascun uomo in quanto tale, prova: il dolore, come capacità di esperire e sentire, di compatire, costituisce il segno, l’indizio distintivo dell’uomo e dell’umano, il riconoscimento e l’elaborazione-espressione del dolore è già riscatto e indizio umano. Le domande scaturiscono sempre dall’insopportabilità del dolore. L’uomo è uomo, solo, ed è egli e non altri responsabile del suo agire, del suo patire, del suo contemplare. L’uomo come fine è la cartesiana dimostrazione che l’esistenza nel mondo è sofferenza, il dolore certifica in quanto tale l’esistenza e riafferma il rapporto con la realtà.

 

 

Il testo è parte del ciclo di conferenze tenute del prof. Angelo Fàvaro a Praga in data 6 e 7 novembre 2012, organizzato dalla Società Dante Alighieri, o.s. – Comitato di Praga, in collaborazione con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Roma Tor Vergata, con il Dipartimento di Italianistica dell’Università Carlo di Praga e con l’associazione Fondo Alberto Moravia

 



[1] Il progetto dell’opera omnia di Moravia è così articolato: 14 volumi di circa duemila pagine ciascuno. Opere/1. Romanzi e racconti 1927.1940; Opere/2. Romanzi e racconti 1941.1949; Opere/3. Romanzi e racconti 1950.1959 (2 tomi); Opere/4. Romanzi e racconti 1960.1969, pubblicati; da pubblicare invece: Opere/5. Romanzi e racconti 1970.1979; Opere/6. Romanzi e racconti 1980.1990. Opere/7. Viaggi: le raccolte; Opere/8. Viaggi gli articoli dispersi. Opere/9. Teatro. Opere/10. Scritti su letteratura, teatro e arti (2 tomi). Opere/11. Scritti sul cinema (2 tomi). Opere/12. Saggi, inchieste e scritti politici. Opere/13. Scritti autobiografici e interviste. Opere/14. Bibliografie e indici.

 

[2] D. Maraini, Il bambino Alberto, Milano, Rizzoli, 1986, p.23.

[3] A. Moravia, Lettere ad Amelia Rosselli, a cura di Simone Casini, Milano, Bompiani, 2009, p. 141. Da notare che a Siciliano aveva narrato nel 1971 che fin dai 9 anni aveva iniziato a scrivere racconti, E. Siciliano, Alberto Moravia. Vita, parole e idee di un romanziere, Milano, Bompiani, 1982, p. 36.

[4] A. Moravia, Lettere ad Amelia Rosselli, op. cit., pp. 186-187.

[5] Non si vuole ripetere precisamente il percorso biografico di Alberto Moravia, che per altro non è oggetto del presente studio, ma più semplicemente ricostruire brevemente il contesto famigliare in modo del tutto funzionale a tracciare il ritratto della madre dello scrittore. Ad oggi i volumi che trattano con precisione di particolari e con numerose attestazioni documentarie la vita di Alberto Moravia sono: R. De Ceccatty, Alberto Moravia, Milano, Bompiani, 2010; A. Moravia, A. Elkann, Vita di Moravia, Milano, Bompiani, 1990; R. Paris, Moravia. Una vita controvoglia, Milano, Mondadori, 2007; E. Siciliano, Alberto Moravia. Vita, parole e idee di un romanziere, Milano, Bompiani, 1982. Fra i vari, da ultimo si veda la Cronologia a cura di S. Casini, in A. Moravia, Opere/1. Romanzi e racconti 1927.1940, Milano, Bompiani, 2000, pp. XXIII-LXXVII.

[6] A. Moravia, Le roi est nu, Paris, Stock, 1979, p. 16.

[7] R. De Ceccatty, Alberto Moravia, op. cit., p. 43.

[8] Ivi, pp. 192-193

[9] Ivi, pp. 245-246.

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