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La guerra di Quentin Tarantino: la banalità di un male bastardo e senza gloria

Un folle complotto per uccidere in un colpo solo Hitler, Göring, Göbbels e le più alte gerarchie tedesche; una spietata squadra speciale di soldati ebrei noti come i “Bastardi” che marchia con una svastica la fronte dei sopravvissuti e taglia lo scalpo alle proprie vittime; l’apocalittica vendetta di una giovane ebrea proprietaria di un piccolo cinema dove si riunisce il gotha del Terzo Reich per vedere la prima di un film di propaganda; una conturbante attrice tedesca spia degli alleati e un patto scellerato tra un colonnello nazista e gli alleati per porre fine alla guerra. Questi in poche righe gli ingredienti esplosivi dell’assurda e surreale farsa di fantapolitica uscita dal genio di quello che, secondo la mia modesta opinione, verrà celebrato come uno dei più grandi registi vissuti a cavallo tra il XX e il XXI secolo.

Sono centinaia i film girati in tutto il mondo sul tema della Seconda Guerra Mondiale a partire dai più fedeli alla realtà storica, i più militaristi e violenti, quelli di evidente propaganda politica, passando attraverso le opere dove la guerra è lo sfondo drammatico di storie piene di umanità e dolore per arrivare fino a quelli romantici e intimisti e finire con quelli addirittura comici. Sono così tanti da farci pensare che sia ormai difficile proporre ancora questo soggetto senza cadere nella trappola della ripetizione, del déjà-vu cinematografico. Non a caso sono sempre abbastanza restio di fronte all’idea di affrontare l’ennesima rappresentazione di un evento che pare sia già stato inscenato in tutti i modi possibili ed immaginabili.

Eppure il genio di Quentin Tarantino è riuscito nella sfida apparentemente impossibile di girare un film sulla Seconda Guerra Mondiale assolutamente nuovo e del tutto diverso da tutto ciò che abbiamo visto finora. Con Inglorious Bastards, uscito in italiano come Bastardi Senza Gloria, la pellicola prodotta dalla Weinstein Company e distribuita nel 2009 dalla Universal Studios che ha valso nel 2010 a Christoph Waltz l’Oscar per il miglior attore non protagonista per la magistrale interpretazione del cinico e spietato colonnello nazista Hans Landa, Tarantino ci presenta un’opera di altissima qualità dai risvolti non banali. Il tema della violenza, così caro al regista di Knoxville, che della vendetta furibonda sembra aver fatto il protagonista reale di tutti i suoi film che li lega come un oscuro e scomodo leit motiv, si dipana qui ingigantito e approfondito dal contesto bellico dove l’annientamento dell’avversario, il fine implicito che muove tutti i protagonisti, siano essi nazisti o alleati, libera da ogni vincolo l’illimitata e cruenta manifestazione dell’odio di una parte contro l’arte.

Fin qui, tutto sommato, niente di nuovo. Ma, così come ha già fatto altre volte nei suoi capovalori passati, Tarantino esula volutamente dal contesto morale ed etico della lotta del Bene, gli alleati, contro il Male, i nazisti, così comune alle centinaia di film sopra citati. Lo dà per scontato, così come nei suoi primi lavori dava per scontato che i sicari e i criminali fossero i cattivi di turno. Ma la novità di Tarantino sta proprio in questo: tutto sommato pare addirittura disinteressarsi alle casacche delle squadre che si scontrano come se fosse indifferente chi sia il cattivo e chi il buono. Quello che gli interessa davvero è la sfida in sé e per sé. La cruenta lotta tra due avversari, ognuno con le proprie ragioni, dove l’esito non può che essere l’annientamento del perdente.

La sua grandezza sta nell’averci presentato ancora una volta l’assoluta banalità del male mostrandoci i nazisti come uomini sì crudeli, ma anche intelligenti, all’occorrenza cortesi e amanti delle belle cose, addirittura dotati di sentimenti (la scena di Göbbels che piange commosso dopo aver ricevuto un complimento dal Führer è somma!). D’altra parte gli alleati protagonisti vengono chiamati i Bastardi perché in quanto a crudeltà verso le proprie vittime tedesche non hanno certo nulla da invidiare ai loro avversari nazisti. Siamo naturalmente propensi a simpatizzare per gli yankees, le spie degli alleati e tutti coloro che contribuiscono alla disfatta del Terzo Reich, ma questo non ci impedisce di provare anche un naturale rispetto nei confronti degli avversari, presentati nella loro pienezza a tutto tondo e non come patetiche e cattivissime macchiette bidimensionali.

E per l’ennesima volta, anche in questo film, la violenza, come sempre in corniciata da una fotografia di altissimo livello, cui dà libero sfogo Tarantino e per la quale è stato puntualmente criticato, è quantitativamente di gran lunga inferiore non solo ai film bellici girati sullo stesso tema, ma addirittura alla gran parte dei thriller e dei drammi che la catena di montaggio hollywoodiana ci propina con brutale regolarità. Da un film di guerra ci aspetteremmo soprattutto sparatorie, cariche à la sbarco in Normandia e massacri di ogni genere. Certo, anche essi non mancano, ma in dose ridottissime. Il grande protagonista è la violenza psicologica, l’orrore promesso da una parte all’altra, la paura della vittima che conosce la propria fine e sa di non avere scampo, la brutalità di inaspettati stravolgimenti in grado di cambiare in un attimo l’esito non solo di uno scontro, ma addirittura di tutta la guerra. In poche parole, il compiersi della vendetta che, come una tragica ed ineluttabile spada di Damocle, pende in ogni fotogramma sui protagonisti oscillando indifferente prima sui nazisti e poi sugli alleati. Una macabra danza davanti gli occhi di un oscuro e paziente spettatore: la morte.

Sangue chiama sangue, vendetta chiama vendetta. Questo il messaggio più profondo trasmesso dai film di Tarantino, maestro nel dipingere sulla pellicola la banale facilità con cui la violenza, al pari dell’incendio appiccato nel piccolo cinema di cui sopra, si diffonde tra gli esseri umani contagiando chiunque ne venga sfiorato senza risparmiare neanche le donne che, da creature fragili e sentimentali, nel momento decisivo, possono diventare, al pari e forse peggio degli uomini, spietate e micidiali assassine. L’intero attentato ai capi delle SS viene lucidamente pensato ed organizzato da un’esile e bella giovane ebrea mossa dalla brama di vendicare lo sterminio della propria famiglia. La capacità di violenza, dunque, trascende qui l’aspetto meramente fisico per sconfinare nelle infinite possibilità della mente umana.

Ed è chiaramente questa la componente più terribile della violenza proposta da Tarantino che tanto ci spaventa. La scomoda ed insopportabile rivelazione della sua assoluta banalità, la normalità e l’ovvietà di questo aspetto atroce proprio dell’uomo. Tramite questa rappresentazione del male, che definirei quasi amorale, a prima vista il regista pare voler indugiare soltanto sugli eccitanti dettagli della sfida tra due contendenti à la Mezzogiorno di fuoco, dove, inconfessati voyeurs assetati sangue, ci ripariamo per rimanere nascosti con il fiato sospeso in attesa del compimento del Destino la cui violenza esplode alla fine come un orgasmo che confina con il dolore. Al pari del grande Beethoven, che nelle sue sinfonie sapeva aumentare il piacere dell’ascoltatore trattenendo fino allo spasimo il climax sonoro dei suoi grandi movimenti musicali, così Tarantino pare sadicamente godere della nostra sofferenza prolungando all’estremo la nostra attesa per poi ricompensarci generosamente con l’irruzione in scena di un folle parossismo degno di un’Apocalissi cinematografica. Come l’inquietante musica dell’armonica del silenzioso Charles Bronson in C’era una volta il West o degli ultimi grandiosi passaggi della Nona dell’immortale Ludovico Van in Arancia Meccanica, anche qui una colonna sonora di assoluta eccellenza è l’inseparabile compagna di questa danza epica tra l’attesa e il dramma, tra il crescendo e l’esplosione, tra l’ascesi e il parossismo. La maestria con la quale Tarantino usa lo strumento musicale rende il nostro degno di sedere sullo scranno più alto della Hall of Fame a fianco di Sergio Leone e Stanely Kubrick.

Ma limitarci a questa sua passione sadomasochistica per l’inscenazione della sfida, il suo svolgimento e il suo epilogo sarebbe sottovalutare colpevolmente il genio di Tarantino. La grandezza della sua opera consiste semmai nel modo in cui il regista trascende la violenza e la sublima nella redenzione del e dal male. Essa, la rendenzione inaspettata e insperata del cattivo di turno, pare essere l’unica via d’uscita che Tarantino ci propone alla catena inarrestabile di sangue e violenza, di vendette che chiamano altre vendette, di odio che suscita altro odio. Il poliziotto Tim Roth che confessa di essere un infiltrato ne Le Iene; il sicario Samuel L. Jackson che cambia vita e citando la Bibbia vuole redimere un altro criminale in Pulp Fiction, la spietata assassina Uma Thurman di Kill Bill che, ottenuta la propria vendetta, si ricongiunge alla figlia e abbandona la via del male. E, infine, il colonnello delle SS che redime se stesso in cambio del proprio contributo alla fine della guerra.

Non, quindi, una violenza fine a se stessa, come l’accuratezza e la precisione della sua rappresentazione fanno erroneamente pensare agli osservatori meno attenti, ma un male presentato come la dolorosa ed inevitabile via lastricata di sangue e orrore verso la Redenzione e la Salvezza. Il mito caro alla tragedia greca riproposto con geniale ironia e mordente sagacia da Tarantino.

 

photo by SpreePiX – Berlin

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