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Lucifero segreto

Molto si mormora, oggi, a proposito – e a sproposito – di una figura in merito alla quale troppo è dato per scontato: mai altra entità fece discutere i teologi quanto Lucifero.
Non ci soffermeremo su ciò che è noto a tutti, ma si ritiene necessario accennarlo per porre in luce quanto la tradizione orale e le voci di corridoio si discostino dalla realtà dei testi sacri che appartengono alla tradizione ebraica e cristiana, e ancor più dalla lettera dei testi che li precedettero.
Il problema del male, infatti, l’annoso (millenario, dovrei dire) dilemma della lotta eterna tra luce e tenebre e della forza tentatrice dell’essere umano è spesso associato a questa figura, Lucifero o Satana che dir si voglia, il serpente della Genesi, colui che precipitò dai cieli per superbia, colui che irretì il gentil sesso sulla terra creando quegli abomini che furono i giganti, nati dall’incesto tra le figlie degli uomini e gli angeli caduti.
In realtà Lucifero, l’angelo caduto e incatenato per l’eternità negli abissi, colui che fu venerato dagli stregoni di medievale memoria, colui che occupa un rango insigne in ciò che ci è stato tramandato sul peccato e sulla tentazione, non è mai citato nella Bibbia.
Perché non lo si trova? Quando è scomparso? Ma specialmente, c’è mai stato?
E chi è, allora, Lucifero, colui che porta sul capo lo smeraldo splendente, torcia dell’aurora e brillante tra i figli di Dio?
Questo è il punto: Lucifero e Satana non sono la medesima entità.
Lasceremo dunque le disquisizioni su Satana, il Diavolo, il peccato e il male a coloro che amano occuparsene, e ci dedicheremo al delicato compito di riportare alla luce alcuni tratti di Lucifero, anticipando sin d’ora che per ‘Lucifero’ in senso proprio si dovrà intendere un’entità romana, mentre questa trattazione si occupa di un’analisi più vasta, volendo rinvenire i tratti di una figura che ritengo d’aver incontrato, con nomi diversi, in una ben più remota antichità.
Per accompagnare il lettore in questa affascinante indagine sarà necessario andare a scavare nei testi che precedono la Bibbia e nei culti venerei connessi alla regalità sacra di sumerica memoria; quindi, dovremo accennare al fenomeno della demonizzazione degli archetipi babilonesi (di derivazione sumero-akkadica) da parte dei semiti, che fu portato avanti per costituire una solida base al culto di Yahvè; accenneremo agli dei di Ebla e Ugarit, in particolare Adad, Ishtar, Ba’al e Ashtoreth; ci spingeremo in Sud Arabia e presso il regno di Saba, dove la stessa entità è presente sotto sembianze maschili col nome di ‘Athtar (Du-Qabd e Shariqan) fino a giungere al ‘vero’ Lucifero, sviluppo tardo di un archetipo ben più antico, nome che dai romani fu attribuito alla torcia dell’aurora ben prima che Pietro ponesse la prima pietra della chiesa cristiana.

* * *

I. Genesi

Esamineremo in questa prima parte la questione dei testi biblici, per fare un po’ d’ordine tra ciò che i testi dicono e ciò che crediamo d’avere letto.
Provvederemo quindi a fornire al lettore i frammenti dei testi in questione, che rinveniamo in Genesi 6, Isaia 14 e nell’apocrifo biblico che va sotto il nome di Libro di Enoch.
In Genesi, 6: 1-8, dove si parla della caduta dei Giganti, ricordiamo i figli di Dio che si unirono alle figlie degli uomini e insegnarono loro le arti, gli incanti, l’uso del fuoco e la metallurgia. Da queste spose umane nacquero i Nephillim, che la Genesi descrive come creature enormi che per lungo tempo si nutrirono di ogni cosa presente sulla terra, fino a consumarne le risorse, e tentarono infine – infruttuosamente – di scalare i cieli. Per questo, Dio punì la loro superbia col Diluvio.
In realtà, a una più attenta lettura del testo, risulta che i Nephillim fossero già sulla terra e che fu l’ingiustizia degli uomini, più che dei giganti, a scatenare l’ira di Yahvè.

1 Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla faccia della terra e furono loro nate delle figlie,
2 avvenne che i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e presero per mogli quelle che si scelsero fra tutte.
3 Il Signore disse: «Lo Spirito mio non contenderà per sempre con l’uomo poiché, nel suo traviamento, egli non è che carne; i suoi giorni dureranno quindi centoventi anni».
4 In quel tempo c’erano sulla terra i giganti (in originale: NEPHILIM), e ci furono anche in seguito, quando i figli di Dio si unirono alle figlie degli uomini, ed ebbero da loro dei figli. Questi sono gli uomini potenti che, fin dai tempi antichi, sono stati famosi.
5 Il SIGNORE vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo.
6 Il SIGNORE si pentì d’aver fatto l’uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo.
7 E il SIGNORE disse: «Io sterminerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato: dall’uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti».
(Genesi 6, 1-7)

Questo passo biblico, lungi a mio avviso dall’essere una ‘rivelazione’ fatta da Dio al popolo eletto, ricalca perfettamente il precedente mito akkadico del diluvio, che a sua volta riprende la più antica tradizione sumerica. Sto parlando del poema di Atrahasis, che nella versione sumerica è chiamato Ziusudra, rinvenuto nella biblioteca di Assurbanipal e composto nel 1646-1626 a.C., durante il regno di Ammisadaqa, quarto successore di Hammurabi.
Questo poema narra della creazione dell’uomo da parte degli Annunaku e degli Igigu: i primi erano gli déi supremi, i secondi semidei al loro servizio. A causa del faticoso lavoro cui il dio Enlil aveva sottoposto gli Igigu, essi si rivoltarono. A questo punto Anu, il grande dio del cielo, riuscì a dissuadere Enlil dall’uccidere i semidei rivoltosi e gli consigliò, invece, la creazione dell’uomo: la razza umana, col sudore della sua fronte, avrebbe rimpiazzato il lavoro prima compiuto dagli Igigu.
Fu quindi immolato il dio We, e la dea Belet-ili, fattrice della razza umana, mescolò la carne e il sangue del dio sacrificato con l’argilla (terra rossa che contiene i medesimi 12 Sali presenti nell’organismo umano). Su questo composto di argilla e sangue del dio, gli Annunaki e gli Igigu sputarono, creando sette maschi e sette femmine, che lavorarono per costruire canali d’irrigazione e grandi dighe, iniziando altresì a moltiplicarsi. È da notare che, fin dal tempo della decisione di creare la razza umana, Enki/Eà assume un ruolo centrale, poiché è proprio il dio sumerico della saggezza e delle acque dolci a decidere la creazione dell’uomo. A proposito di questa figura, si tenga presente che l’epiteto “Signore di Ab”, attribuito a Enki, significa non solo “signore delle acque dolci”, poiché Ab è termine sumerico sia per acqua dolce che per “sperma”, rimandando all’acqua come elemento fecondatore; letteralmente significa “signore della terra” (EN-KI), il suo tempio principale si trova ad Eridu, capitale religiosa dell’antica Mesopotamia ancor prima di Ur. In akkadico è tradotto con Ea, letteralmente “casa dell’acqua”.
Successivamente, il dio Enlil, turbato dal frastuono provocato dalla troppo numerosa razza umana, inviò un’epidemia per liberarsi dei nuovi venuti.
Soltanto il dio Enki/Eà prese le parti degli uomini, aprendosi un imperituro contrasto col dio Enlil (che voleva, invece, la loro scomparsa), e suggerì al Grande Saggio Atrahasis, guida del popolo, di ordinare a tutti di non portare più offerte nei templi e di onorare il solo dio che causò l’epidemia: si trattava, in specie, del dio Namtar, ossia “il secondo demone, il cui nome significa «destino», è famoso per essere il messaggero della dea Ereškigal, regina degli inferi. Nel poema della morte di Gilgameš viene descritto come «senza mani e piedi» (assume infatti la forma di un drago)” [cfr. G. Pettinato, Angeli e demoni a Babilonia, 117, Milano, 2001].
In tal modo, propiziandosi la divinità, Enki assicurò che il flagello sarebbe cessato.
L’epidemia, difatti, cessò: gli uomini ripresero a moltiplicarsi. Ancora disturbato dal loro frastuono, Enlil convenne col consesso degli Annunaku di inviare un secondo flagello: la siccità.
Anche in questo caso il grande saggio, Ziusudra/Atrahasis, istruito da Enki, consiglia agli uomini di onorare Adad, dio delle piogge e delle tempeste, colui che invia pioggia di giorno e rugiada di notte, scongiurando così la seconda piaga (da notare il parallelismo con le piaghe d’Egitto e il consiglio di dio a Mosè).
Segue la terza piaga, la carestia: Enlil, volendo assicurarsi che la popolazione umana venisse decimata, si accordò con Anu e Adad affinché vigilassero sull’osservanza del patto stipulato in assemblea, che prevedeva la distruzione dell’umanità.
Ma Enki, amico degli uomini, ancora una volta violò il patto stipulato con Enlil, aiutandoli a scongiurare la carestia.
Nella quarta assemblea degli Annunaku, Enlil decise di inviare il diluvio, accusando al contempo Adad ed Enki di essere venuti meno ai patti precedentemente conclusi.
Al cospetto dell’intera assemblea, Enki schernì il dio del cielo con una sonora risata e, nuovamente, gli si oppose: gli uomini lavoravano per gli dei ed erano stati creati immolando il dio We; gli Annunaku stessi avevano dato loro la vita, sputando sulla carne e il sangue di We mischiati all’argilla. Per questo, gli uomini andavano protetti e onorati come figli degli dèi.
Costretti dall’intera assemblea a sottoscrivere un nuovo patto per la distruzione dell’umanità tramite il diluvio universale – patto che già sapevano di dover violare –, Enki e Belet-ili mandarono in sogno a Ziusudra/Atrahasis, qui nelle vesti del biblico Noè, l’ordine di costruire una grande barca, su cui caricare oro, argento, metalli, animali e familiari, per sfuggire al flagello, approdando nelle terre in cui Enki regnava.
Dopo giorni di piogge e tempeste, la barca del grande saggio si arenò sulla cima di un monte: Atrahasis inviò in volo degli uccelli, per sapere se sarebbe potuto sbarcare; quindi, tornati indietro gli uccelli con un ramoscello nel becco, il saggio organizzò un banchetto in onore degli dei. Avendo appreso della sopravvivenza di Atrahasis, nei cieli la furia di Enlil si riversava su Enki, poiché egli era venuto meno alla sua parola.
Enki, il Signore della terra, si assunse ogni responsabilità dell’accaduto e pose delle norme per garantire che la terra non fosse nuovamente sovrappopolata: le donne consacrate non avrebbero potuto avere figli, fu introdotta un’alta mortalità infantile e la sterilità per alcune donne. In questo modo l’alleanza tra gli Annunaku fu ristabilita, Atrahasis ebbe in dono l’immortalità e poté unirsi  agli dèi, mentre gli uomini continuarono a prosperare sulla terra.
È, a mio avviso, chiaro che il poema di Atrahasis getta delle ombre sull’originalità dei testi biblici, che a questo punto sembrano non costituire una ‘rivelazione divina’ bensì, storicamente parlando, la raccolta di un patrimonio sapienziale preesistente che le popolazioni nomadi di matrice semitica trovarono durante il loro stanziamento nell’area mesopotamica. Come vedremo più innanzi, durante il periodo stanziale nelle regioni mesopotamiche, la società patriarcale semitica dovette confrontarsi con un clero femminile, divinità veneree dai caratteri guerrieri e a loro dire lussuriosi; la loro raccolta della sapienza sumerica – tramandata più fedelmente da akkadi e babilonesi – si accompagnò, quindi, a una lunga demonizzazione degli dèi preesistenti, definiti nella Bibbia “abomini”, nonché al divieto per qualunque devoto a Yahvé di partecipare a cerimonie religiose di altra tradizione. Venne imposto dai patriarchi un rigido monoteismo, accompagnato da sanzioni severe, su cui torneremo.
Il paragone con Satana compiuto dalla tradizione orale cattolica non ha, come vedremo, alcun riferimento biblico: Shaytan appare invece per la prima volta nella tradizione ebraica, a rappresentare l’aspetto negativo nella lotta eterna tra la luce e le tenebre tipica delle religioni dualistiche quali sono lo zoroastrismo, l’ebraismo e l’islam.
Satana, tuttavia, non pare nelle tradizioni religiose essere la personificazione di una divinità – celeste o infera – ben definita, essendo al contrario concepito come Legione, attraverso riferimenti fumosi dei testi che si ritiene derivino da antiche esigenze di demonizzazione delle divinità dei popoli con cui le genti semitiche si trovarono a convivere, specie in area mesopotamica all’epoca dell’impero babilonese.
Si suole, in proposito, distinguere tra un “periodo nomade” dei popoli semitici che in seguito si stabilirono in Mesopotamia, e un “periodo stanziale”, durante il quale la convivenza con culti a loro avviso inaccettabili, idolatri e abominevoli (quali furono i culti di Ashtoreth e Ba’al, tarda versione del culto regale di Inanna e Dumuzi e Istar e Tammuz), diede luogo alla chiusura sempre più ermetica della religione semitica, fino al punto da escludere dalla comunità chiunque osasse mescolarsi con tali “adoratori di abomini”. Di questo troviamo ancor oggi tracce nei testi biblici, ad esempio nella permutazione vocalica di Ashtoreth in Astaroth, funzionale a creare un’assonanza con la parola “abominio”.
Nella Bibbia, pure, il famoso passo di Isaia (Is 14:12-14) pare ricalcare pedissequamente la caduta del dio ‘Athtar presso le popolazioni ugaritiche.
Nel corso di quest’opera di demonizzazione degli antichi dèi, il patrimonio sapienziale di sumeri e babilonesi cadde lentamente ma inesorabilmente nell’oblio, insieme all’antica leggenda sulla nascita della conoscenza umana grazie all’aiuto di una potenza celeste amica degli uomini, tramite un patto suggellato dalla stella del mattino.
A quale culto si dedicavano, dunque, i popoli mesopotamici?

II. Il libro di Enoch

Procedendo nella nostra indagine, è bene specificare che nemmeno il mito della Caduta è presente nella Bibbia: esso è contenuto in un apocrifo biblico, noto sotto il nome di “Libro di Enoch”, che letteralmente significa “iniziato” (c.d. “etiopico” a causa della lingua in cui era redatto l’unico manoscritto completo ritrovato e risalente al I sec. a.C., il quale, a quanto emerge dai frammenti di Qumran, era però precedentemente trascritto in paleo ebraico – i primi tre capitoli – e in aramaico).
Da questo apocrifo biblico deriva la comune interpretazione della caduta degli angeli, sopravvissuta nella tradizione orale: secondo tale tradizione, i figli di Dio si unirono alle figlie degli uomini, guidati da Semyaza.
Riporterei per intero alcuni brani, tratti appunto da quel libro di Enoch intitolato “Il libro degli angeli” (qui nella trad. it. di M. Pincherle, Enoch – il primo libro del mondo, Faenza, 1977).
In questo apocrifo “mito della caduta”, che si accompagna alla civilizzazione della terra da parte degli angeli ribelli, ancora una volta non troviamo menzione di Lucifero. Rinveniamo, tuttavia, il leitmotiv della disubbidienza – di Semyaza –  al veto da parte del dio dei cieli, il sumerico Enlil, di istruire gli uomini e insegnare loro le arti e le scienze necessari a fronteggiare le difficoltà terrene.

IL LIBRO DEGLI ANGELI

CAP VI

E ciò avvenne quando i figli degli uomini si moltiplicarono, quelli che in quei giorni videro la luce. Fra di loro erano belle e seducenti figlie.
E gli Angeli, figli del cielo, le videro e le desiderarono e dissero tra loro: “Andiamo, scegliamoci delle mogli tra le figlie degli uomini che ci partoriscano dei figli”
E Semyaza, che era il capo, disse loro: “io temo che voi non siate concordi per compiere questa azione e io solo dovrò pagare la pena di un grande peccato.”
E tutti gli risposero e dissero: “Facciamo un giuramento e leghiamoci tutti con imprecazioni comuni”.
Tutti insieme prestarono il giuramento e si legarono l’un l’altro con mutue imprecazioni.
E in tutto essi erano duecento. Scesero, nei giorni di Jared, sulla cima del monte Hermon e lo chiamarono monte Hermon perché avevano giurato sopra di esso.
E questi sono i nomi dei loro capi: Semyaza, il loro capo, e Arachiel, Rameel, Kokariel, Tamiel, Ramiel, Danelet, Ezechiel, Barachiel, Azazel, Arnaros, Batartel, Ananiel, Zachiel, Samsiel, Satariel, Turiel, Jonaiel, Sariel.
Questi sono i loro capi delle decadi.

CAP VII

E tutti gli altri, insieme a loro, presero delle mogli e ciascuno ne scelse una e cominciarono a unirsi a loro e a sollazzarsi con loro e insegnarono loro vezzi e incanti e a tagliare radici e a conoscere e distinguere le piante.
Ed esse vennero fecondate e partorirono grandi giganti.
Essi consumarono tutti i beni degli uomini e quando gli uomini non poterono più sopportarli,
I giganti si volsero contro di loro e divorarono l’umanità.
Ed essi iniziarono a peccare contro gli uccelli e gli altri animali e i rettili e i pesci e a divorarsi reciprocamente la carne e a berne il sangue.
Allora la Terra mosse accusa ai senza legge.

CAP VIII

E Azazel insegnò agli uomini a far spade e pugnali e scudi e corazze e fece loro conoscere i metalli e l’arte di lavorarli e fare braccialetti e ornamenti e l’uso dell’antimonio e l’abbellimento delle palpebre e ogni sorta di pietre preziose e tutte le tinture coloranti.
Ed allora sorse molta infamia ed essi commisero fornicazione e vennero deviati e divennero corrotti in tutti i sensi.
Semyaza insegnò loro molti incantesimi e il taglio delle radici. Arnaros a sciogliere gli incantesimi. Barachiel l’astrologia. Kokariel l’astronomia. Ezechiel la meteorologia. Arachiel i segni della terra. Sansiel i segni del sole e Sartel i corsi della luna.
E mentre gli uomini perivano, gridarono e il loro grido giunse fino al cielo.

In questa più tarda versione della civilizzazione della terra da parte degli angeli ribelli, notiamo già la tendenza demonizzatrice, propria dei popoli semitici, che è invece assente nei miti sumerici e akkadici: se nei testi precedenti Enki/Ea, il disubbidiente, è uno degli Annunaku – cioè, lo ricordiamo, gli dèi maggiori – e tale rimane nonostante l’irridente sfida al dio del cielo (suo pari e suo fratello), al contrario, nella versione semitica del mito, gli angeli che si prodigano per l’umanità divengono “corrotti in tutti i sensi”. Essi verranno precipitati negli abissi dove, come Prometeo, saranno incatenati per molte ère degli uomini.
Comune, ancora una volta, è il motivo del sovraffollamento della terra e la rivolta di esseri supremi – qui, i giganti – contro gli uomini. Seguono, nuovamente, i racconti delle sventure della razza umana e del diluvio.
Già si nota, al di là delle somiglianze, come la razza umana, fin dagli albori della sua storia, abbia voluto rammentare la propria origine divina tramite le leggende connesse agli dèi civilizzatori, al contempo manifestando la propria sofferenza per l’ingiusto abbandono da parte delle forze celesti che l’avevano generata e per l’allontanamento dal proprio destino nei cieli: di qui l’esigenza di mantenere viva la memoria degli dèi “amici” dell’umanità, i Portatori di Luce.

 

III. Helel ben Sahar, l’astro splendente

Il nome di Lucifero è altresì erroneamente rinvenuto in un passo di Isaia (14: 12-14), la c.d. invettiva contro il re di Babilonia:

10  Tutti prendono la parola per dirti: Anche tu sei diventato debole come noi e sei divenuto simile a noi.
11  Il tuo fasto è precipitato nello Sceol assieme al suono delle tue arpe; sotto di te si stende un letto di vermi e i vermi sono la tua coperta
12  Come mai sei caduto dal cielo, [Helel ben sahar nell’originale, letteralmente: “splendente astro figlio dell’aurora”, erroneamente e anacronisticamente tradotto con “lucifero”] figlio dell’aurora? Come mai sei stato gettato a terra, tu che atterravi le nazioni?
13  Tu dicevi in cuor tuo: “Io salirò in cielo, innalzerò il mio trono al di sopra delle stelle di Dio; mi siederò sul monte dell’assemblea, nella parte estrema del nord;
14  salirò sulle parti più alte delle nubi, sarò simile all’Altissimo”.
15  Invece sarai precipitato nello Sceol, nelle profondità della fossa,
16  Quanti ti vedono ti guardano fisso, ti osservano attentamente e dicono: “E’ questo l’uomo che faceva tremare la terra, che scuoteva i regni,
17  che ridusse il mondo come un deserto, distrusse le sue città e non lasciò mai andar liberi i suoi prigionieri?”
18  Tutti i re delle nazioni, tutti quanti riposano in gloria, ciascuno nel proprio sepolcro;
19  tu invece sei stato gettato lontano dalla tua tomba come un germoglio abominevole, come un vestito di uccisi trafitti colla spada, che scendono sui sassi della fossa, come un cadavere calpestato.
20  Tu non sarai riunito a loro nella sepoltura, perché hai distrutto il tuo paese e hai ucciso il tuo popolo; la discendenza dei malfattori non sarà più nominata.
21  Preparate il massacro dei suoi figli a causa della iniquità dei loro padri, perché non si alzino più a prendere possesso della terra e a riempire la faccia del mondo di città.
22  Io mi leverò contro di loro dice l’Eterno degli eserciti, e sterminerò da Babilonia il nome e i superstiti, la progenie e la discendenza dice l’Eterno.
23  e farò il dominio del porcospino e paludi di acqua, la spazzerò con la scopa della distruzione dice l’Eterno degli eserciti”.
24  L’Eterno degli eserciti ha giurato, dicendo: “In verità come ho pensato, così sarà, e come ho deciso, così accadrà.
25  Frantumerò l’Assiro nel mio paese e lo calpesterò sui miei monti; allora il suo giogo sarà rimosso da essi, e il suo carico sarà rimosso dalle loro spalle.
26  Questo è il piano deciso contro tutta la terra e questa è la mano stesa contro tutte le nazioni.
27  Poiché l’Eterno degli eserciti ha deciso questo e chi potrà annullarlo? La sua mano è stesa e chi potrà fargliela ritirare?”.
28  Nell’anno della morte del re Achaz fu pronunciata questa profezia:
29  “Non ti rallegrare, o Filistia tutta quanta, perché la verga che ti colpiva è spezzata! Poiché dalla radice del serpente uscirà una vipera, e il suo frutto sarà un serpente ardente e volante.
30  I primogeniti dei poveri avranno di che cibarsi e i bisognosi riposeranno al sicuro; ma farò morire di fame la tua radice, e questo distruggerà il tuo residuo.
31  Urla, o porta, grida, o città! Struggi, o Filistia tutta quanta, perché dal nord viene un fumo, e nessuno lascia il suo posto nelle sue schiere”.
32  Che si risponderà ai messaggeri di questa nazione? “Che l’Eterno ha fondato Sion e in essa gli afflitti del suo popolo trovano rifugio”.

Le parole “astro splendente figlio dell’aurora” (versetto 12) sono la traduzione di “helel ben sahar” (lett.: “splendente figlio di sahar”, epiteto della stella del mattino): esse non designano, quindi, il nome proprio di un’entità, e la traduzione con Lucifero è errata, sia storicamente che letteralmente; si tratta, piuttosto, di un appellativo che fa riferimento al pianeta Venere.
La ragione per cui, oltre che letteralmente, si ritiene errata tale traduzione anche storicamente, è molto semplice: Lucifer, entità romana portatrice della luce mattutina, poco si adatta all’invettiva contro il re di Babilonia, per ragioni sulle quali non pare nemmeno necessario insistere.
A questo punto, cercheremo di capire a chi si riferisca questo epiteto e alle ragioni di questa demonizzazione, alle quali abbiamo già accennato.
Tornando al nostro epiteto “helel ben sahar”, rinveniamo il nome Sahar nel poco noto testo di Sahar (aurora) e Shalim (crepuscolo), di origine ugaritica: si tratta di due fanciulli divini, figli del dio El e di due donne mortali – l’uno stella del mattino, l’altro stella della sera.
Narra il mito che El, dio supremo del cielo nel pantheon ugaritico, agli inizi dei tempi giunse sulla riva del mare, dove vide galleggiare due creature femminili nell’acqua che, dal frammentario inizio del racconto, desumiamo essere la paredra ‘Athirat e la misericordiosa Rahmay. Egli uccise un uccello e lo mise ad arrostire, dicendo alle due che quando il pasto fosse stato cotto, esse avrebbero dovuto avvisare El rivolgendosi a lui come un padre o come un marito, ed egli si sarebbe comportato di conseguenza. Entrambe si rivolsero a lui come marito e con lui giacquero, dando origine a Sahar, la stella del mattino, e Shalim, la stella della sera, i due epiteti di Venere, analoghi a Lucifer e Vesper nella tradizione romana.
Potrei già qui anticipare che, astronomicamente, il doppio volto di Venere ha una sua ragione di esistere: nelle stagioni in cui essa precedeva il sorgere del sole, si aveva la stagione della guerra e delle campagne militari; quando, invece, essa brillava nel cielo al crepuscolo, assumeva il volto di signora dell’amore. La sua apparizione prima dell’alba o dopo il tramonto separava altresì la stagione della piogge da quella della siccità.
Venere fu, in effetti, il primo pianeta ad essere studiato dagli antichi e, anzi, si può proprio dire che dalla sua osservazione sia nata la scienza astronomica. Il pianeta fu particolarmente caro ai pitagorici, il cui simbolo di riconoscimento – il pentalfa – è la riproduzione esatta delle congiunzioni Terra-Sole-Venere in un ciclo di otto anni.
Un altro mito, stavolta di origine canaanea, allude alla rivolta di Helel, figlio del dio Sahar, per impadronirsi del trono. Helel sarebbe stato quindi precipitato nell’abisso.
Sebbene non abbiamo documentazione sufficiente per sostenere che il passo di Isaia contenga un’allusione a questo mito, è interessante notare un parallelismo con i testi di Ras Shamra, risalenti circa al 1300-1200 a.C.: ivi si narra della caduta del dio ‘Athtar dal trono di Ba’al.
Nella Bibbia, il famoso passo di Isaia (Is 14:12-14) pare ricalcare pedissequamente questo breve episodio contenuto nei testi di Ras Shamra e riferito alla caduta di un dio oggi dimenticato; una figura che, tuttavia, apre la porta a riflessioni di ampio spettro.
I testi di Ras Shamra appartengono al tramonto della città di Ugarit, una delle più antiche città del mondo insieme a Ur ed Eridu; sebbene si riscontrino insediamenti storici anche più antichi, Ugarit iniziò ad assumere la fisionomia di città organizzata con una cinta muraria nel VI millennio a.C., in epoca neolitica.
I testi di Ras Shamra risalgono tuttavia al 1200 a.C., e vedremo che probabilmente la caduta dell’“antenato” di Lucifero, ‘Athtar, potrebbe essere lo specchio di un decadimento del suo culto, che rimase fiorente nelle zone sud arabiche, ma che in Ugarit fu soppiantato da quello di El, prima, e da quello di Ba’al, in seguito (Barton, Ashtoreth and Her Influence in the Old Testament, passim).
Interessante è notare il parallelismo quasi perfetto tra la caduta di helel ben sahar e la demonizzazione, ad opera della cultura ebraica, di Asthoreth, che fu conosciuta dagli Arabi col nome di ‘Athtar (divinità principale del sud Arabia) e dai babilonesi col nome di Ishtar: gli archetipi elencati hanno in comune la radice del nome (‘ttr), e ognuno di essi è legato ad attributi celesti e uranici, come vedremo più avanti nella trattazione.
Ma andiamo con ordine: ecco cosa leggiamo nei Testi di Ras Shamra a proposito della caduta di ‘Athtar:

Dopo di ciò ‘Athtar il Terribile
scala il monte Saphon;
Egli prende possesso del suo seggio sul trono di Ba’al il Potente.
I suoi piedi non arrivano al poggiapiedi,
la sua testa non raggiunge la cime del trono.
Poi ‘Athtar il Ribelle dichiara,
Io non sarò re sulle rupi di Saphon.
‘Athtar il Terribile scende,
giù dal trono di Ba’al il Potente,
e diventa signore di tutto il vasto mondo terrestre (una traduzione alternativa sarebbe “sotterraneo”: io qui ho scelto di tradurre con “terrestre”, avendo alla memoria l’epiteto di Enki, “signore della terra”, anch’egli, come ‘Athtar, dio delle acque dolci e dell’irrigazione).

Confrontando questo passo con il già citato Isaia 14:12-14 (Come mai sei caduto dal cielo, astro splendente, figlio dell’aurora? Come mai sei stato gettato a terra, tu che atterravi le nazioni? Tu dicevi in cuor tuo: “Io salirò in cielo, innalzerò il mio trono al di sopra delle stelle di Dio; mi siederò sul monte dell’assemblea, nella parte estrema del nord;  salirò sulle parti più alte delle nubi, sarò simile all’Altissimo”. Invece sarai precipitato nello Sceol, nelle profondità della fossa), è pressoché impossibile non notare un parallelismo tra le due figure, ossia il dio che porta l’epiteto di helel ben sahar e ‘Athtar.
Lo stesso parallelismo ritengo di rinvenire tra ‘Athtar ed Enki: in entrambi i casi, si tratta di déi delle acque che custodiscono i misteri della saggezza e si ribellano al dio del cielo, rappresentato da Enlil in un mito, da Ba’al nell’altro.
Ritengo quindi che, nonostante il testo di Ras Shamra sia particolarmente lacunoso per quanto concerne la caduta di ‘Athtar, specie a causa delle condizioni in cui il testo è giunto fino a noi, debba trattarsi di una più tarda rivisitazione della ribellione del dio delle acque e protettore delle opere umane al volere del dio che desiderava lo sterminio della razza umana: si ricordi che, nel mito sumerico, gli uomini sono creati per lavorare a canali d’irrigazione artificiale, simboleggiando in tal modo il potere di imbrigliare, tramite la conoscenza, le forze imprevedibili della natura.
Che Lucifero sia legato all’astro che precede l’aurora lo credevano, in effetti, anche i romani: il loro Lucifer (“portatore di luce”), denominato anche “torcia dell’aurora”, corrisponde alla divinità greca Phosphoros – o Eosforo –, figlio di Eos (l’aurora) e del titano Astreo (il crepuscolo o, secondo alcuni, il cielo stellato). In entrambi i casi, Lucifero o Phosphoros portano tra le mani una torcia, precedendo l’alba.
Paragonare questi più tardi volti della stella del mattino ai “portatori del fuoco” è, quindi, intuitivo, e da qui a dimostrare che i “portatori di fuoco” intesi come portatori di civiltà (Prometeo, Atlante, Anzty) siano sopravvivenze di archetipi ben più antichi il passo è relativamente breve: la sostituzione di questi eroi/semidei “civilizzatori” – portatori del fuoco agli uomini, demonizzati e puniti per l’eternità per aver sfidato il volere dio dei cieli – all’antico dio Enki/Ea, che dio rimane, dimostra come l’archetipo del “ribelle” possa ragionevolmente essere un mutamento cultuale dovuto alla demonizzazione semitica e all’espandersi del suo monoteismo, prima, e del cristianesimo, poi.
Da dio “portatore di luce e civiltà”, ribelle dei cieli, l’astro splendente figlio dell’aurora sarebbe divenuto, da pari che era del dio dei cieli, il figlio di quello stesso dio celeste che aveva in odio la razza umana; posteriormente, col mutare delle credenze, sarebbe stato declassato ulteriormente a un eroe, punito e incatenato per l’eternità.
Come spiegare, tuttavia, l’identificazione della stella del mattino con l’archetipo del dio ribelle amico degli uomini, posto che sia Enki che ‘Athtar sono, in realtà, déi delle acque dolci?
A questo proposito non bisogna dimenticare che le divinità mesopotamiche e, più in generale, le divinità precedenti le religioni monoteistiche, non possedevano una fisionomia definita bensì molteplici volti, nonché un’infinità di nomi, a seconda delle regioni in cui venivano adorate. Un esempio emblematico della visione degli déi nell’antichità è dato dal dio ‘Athtar, di origine sud arabica: sotto il suo nome si trovano diversi epiteti gerarchicamente ordinati, la cui rilevanza cambia a seconda delle epoche e dei luoghi, nonché della predominanza di una tribù sull’altra, come meglio si dirà.
Nel caso di ‘Athtar è semplice risalire alla sua identificazione col pianeta Venere, grazie agli studi di André Caquot, qui tradotti per agevolarne la lettura (Le dieu ‘Athtar et les textes de Ras Shamra”, in Syria, XXXV, 1958, 45-60):
“La comparazione delle differenti religioni semitiche mostra l’importanza del principio divino designato col termine ‘ttr, comune a pressoché tutte le lingue della famiglia. Principio primitivamente androgino, è detto, perché questo appare tanto come un dio quanto come una dea.
Richiamiamo brevemente i dati:
1) In Arabia del sud, il dio ‘ttr occupa il rango più insigne. È il solo grande dio il cui nome è comune a tutti i popoli del regno. Le iscrizioni lo menzionano regolarmente in testa alle liste divine. Altri dei ‘lmqh a Saba, ‘m e ‘nby a Qataban, wd in Aswan, sn a Hadramawt) hanno occupato un più grande posto nella pratica religiosa: è a loro che sono stati costruiti dei templi, sono loro che proteggono le capitali e generano il re, ma si potrebbe supporre uno stadio religioso primitivo dove ‘Athtar sarebbe stato la divinità principale.
2) In Arabia del nord e presso gli Armeni. Il dio principale degli “Arabi” dei paesi di Adumatu, sconfitto da Esarhaddon, porta il nome, di forma armena, A-tar-sa-ma-a-a-in “’Athtar del cielo”. Il nome divino Tamoudiano ‘trsm(n) ne conserva il ricordo. Più a nord, i testi cuneiformi della regione di Habur rivelano dei nomi teofori in ‘Atar- . I nomi delle divinità sono sue ipostasi femminili, sopravvissute in tarda epoca nella ipostasi della dea siriana Atargatis.
3) La linea 17 dell’iscrizione di Mesha, apprendiamo che il nome completo del grande dio dei Moabiti era ‘strkms (k’mos dell’Antico Testamento). La forma mascolina sopravvive egualmente in qualche nome teoforico d’impronta Cananea attestato tardivamente. La forma femminile, già ritrovata nei testi d’Ugarit, ha goduto in tutto il regno cananeo di una popolarità sulla quale non pare necessario insistere.
4) In Mesopotamia, la dea Ishtar conserva fedelmente il nome di ‘ttr “semitico comune”. L’impianto del suo culto coincide con l’installazione dei semiti nei paesi accadici, e lei sarebbe stata la divinità principale di Sargon il Grande.”

La stretta correlazione tra la stella del mattino, Venere, e la civilizzazione della terra, inizia a cogliersi in tutta la sua antica valenza e, invero, non pare strano che le popolazioni desertiche considerassero una delle più importanti scoperte civilizzatrici proprio il potere di imbrigliare l’acqua nei canali d’irrigazione.
Il problema si pone, tuttavia, per quanto concerne il mito sumerico di Enki. Per rinvenire tracce dell’archetipo venereo anche in questo antico mito, basti pensare che l’alleanza tra Atrahasis e il dio, che culmina nella sopravvivenza del diluvio grazie al quale l’eroe riceve l’immortalità, è coronata proprio per mezzo di un giuramento di cui fu testimone la stella del mattino.
Lo stesso nome Atrahasis, akkadico (quindi sempre rientrante in quella radice “semitico-comune” analizzata da Caquot) sembra riecheggiare le divinità legate alla stella del mattino: Ištar, Astarte, ‘Athtar, Asherat, Ashtoreth.
Ma, specialmente, è da notare che la dea che appare nel poema di Atrahasis, Belet-ili (“signora degli dei”, epiteto che fu, in seguito, proprio di Ištar di Babilonia), alleata di Enki/Ea, è presente in Sumer sotto il nome di Ninhursag, “la grande signora” (cfr. S. Dalley, Myths from Mesopotamia: Creation, the Flood, Gilgamesh, and Others. Oxford University Press, 326, 1998).
I simboli legati alla grande Signora sono il leone e una sorta di omega, molto simile all’ankh, che la stessa Ištar tiene fra le mani nelle raffigurazioni a lei dedicate: potrebbe trattarsi, quindi, di un’ipostasi di Venere. Lo stesso leone, epiteto del sud arabico e sabeo ‘Athtar (cui venivano sacrificati leoni e tori), è presente nelle raffigurazioni del tempio regale di Ištar a Ebla, dal sapore squisitamente alchemico, in cui notiamo un leone alato che vomita acqua. Il leone aptero, invece, viene, come nelle litografie alchemiche sia classiche che moderne, ucciso dal re. Nello stesso tempio sono anche presenti un’aquila leontocefala e un toro androcefalo, riecheggianti la visione di Ezechiele.
Possiamo cogliere, dunque, anche tracce di un culto esoterico antichissimo, caratterizzato da simbolismi alchemici tutt’ora presenti nella Tradizione e indissolubilmente legati a una concezione dell’archetipo venereo quale portatore di civiltà e conoscenza.
Un’altra traccia importantissima di tale culto alchemico è contenuta nel poema di Gilgames, laddove il selvaggio Enkidu viene iniziato da una ierodula di Inanna/Istar e, al termine dell’addestramento, ritrova le proprie energie ordinate e fruibili, mentre prima la loro violenza disordinata gli impediva di disporre di se stesso.
Per quanto breve sia questo capitolo iniziale della saga di Gilgames, molto ci dice sul culto esoterico di Inanna e sugli onori tributati alle sue sacerdotesse, che erano anche le uniche a poter far discendere la regalità dal cielo e, quindi, a iniziare i re antichi.
Anche al tempo dei sumeri, in cui le osservazioni del pianeta Venere non erano giunte a un punto tale da elevare la divinità a lei connessa al rango di portatrice di civiltà, il dio Enki, portatore di luce presso tale popolo, è connesso alla più grande scoperta civilizzatrice di tale epoca: l’irrigazione. E la stella del mattino, come abbiamo visto, è pur sempre presente nel mito di Athrahasis per coronare l’alleanza tra uomini e dèi, sotto forma di testimone del patto che lega Atrahasis a Enki/Eà.
Vedremo, in un separato scritto, come questa funzione di coronamento del patto tra gli uomini e gli dèi sia, in realtà, la primaria caratteristica delle divinità veneree, alle quali i re dell’antichità sempre si sono consacrati, per ricevere da lei il diritto divino di regnare sul popolo.
La  prima conclusione interlocutoria che, a questo punto, pare lecito trarre dai dati raccolti, è la seguente: la figura di Lucifero, per come la conosciamo, non è che l’eco di un culto perduto nelle nebbie dei tempi.
Tale culto, da un lato, aveva un carattere essoterico e tramandava al popolo l’origine divina dell’uomo e la sua alleanza con le potenze celesti. Dal punto di vista esoterico, invece, le cerimonie della regalità e la consacrazione di ierodule al servizio di Inanna/Istar – che sembrano rivivere in Egitto sotto forma delle “divine adoratrici” – parlano di un culto primitivo e dagli spiccati caratteri sessuali, ma pur sempre di matrice alchemica, come è agevole desumere dalla valenza delle iscrizioni che indicano un processo di trasmutazione della forza presente nell’uomo (in specie, nel re). Di tale trasmutazione per mezzo delle conoscenze segrete detenute dalle ierodule di Inanna troviamo traccia, come abbiamo visto, anche nell’epopea di Gilgames, nel capitolo riguardante l’iniziazione e la trasformazione di Enkidu.
Possiamo, dunque, rinvenire, nel mutamento della figura di Lucifero attraverso i millenni, la traccia del lento cammino della razza umana: dapprima, il portatore di civiltà era identificato col protettore delle opere d’irrigazione, che per le popolazioni desertiche segnò il primo passo verso la civiltà.
Posteriormente, quando iniziò l’osservazione dei corpi celesti e i popoli suddetti cominciarono a studiare e comprendere le profonde interazioni esistenti tra la terra e i cieli, la figura del dio della saggezza prese i caratteri di quell’astro splendente – Venere –, che per primo fu studiato a fondo dai babilonesi: di qui si intuiscono i primi epiteti stellari attribuiti dagli arabi ad ‘Athtar Shariqn (“colui che sorge ad est”), il quale in origine fu dio delle acque dolci e protettore dei canali d’irrigazione, ma che reca in sé la medesima radice semitico comune di Ishtar, Asthoreth ed Astarte (la radice ‘ttr).
Presso le popolazioni mesopotamiche ed eblaitiche, questi caratteri stellari si rinvengono altresì nelle divinità preposte alla tutela dei regnanti: nessun sovrano poteva essere dichiarato tale se non dopo che fosse stata officiata la cerimonia della ierogamia, durante la quale il re veniva consacrato da una sacerdotessa di Ishtar, al pari del selvaggio Enkidu.
Su quest’ultimo punto mi riservo di tornare, in un separato scritto, onde esaminare a fondo le tracce lasciate dalle cerimonie della regalità, che rappresentano il massimo splendore del culto astrale venereo, sorto dalle ceneri degli antichi dèi civilizzatori e, infine, demonizzato e soppiantato dagli dèi dei semiti, stanziatisi in quelle terre.

Anna Bellon

(www.accademiehermetichekremmerzianeunite.org)

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